Gli ulivi oggi presenti nel giardino del Getsemani potrebbero essere gli stessi che hanno visto Gesù sudare sangue e sotto i quali si sono addormentati Pietro, Giacomo e Giovanni, incapaci di vegliare e pregare in quel momento cruciale per la salvezza dell’umanità? La domanda è rimasta, per così dire, sottesa all’intera conferenza stampa con la quale ieri a Roma, presso la Radio Vaticana, la Custodia di Terra Santa, rappresentata da Pierbattista Pizzaballa, ha reso noti i risultati di una ricerca scientifica su quegli alberi antichissimi. Durato tre anni, lo studio è stato condotto dai massimi esperti internazionali di biologia e fisiologia vegetale (tutti di università italiane), coordinati dall’agronomo specialista in storia dell’ulivo Giovanni Gianfrate e da Antonio Cimato del Cnr, con l’obiettivo essenziale di capire lo stato di conservazione delle piante, le prospettive di sopravvivenza e la necessità di interventi specifici. Il risultato è stato sorprendente, anche se una risposta alla domanda iniziale, hanno spiegato sia Gianfrate che Cimato, può essere data solo per via indiretta. La datazione del legno dei loro tronchi, nella parte sopra il livello del terreno (epigea), riporta alla metà del XII secolo. Quel che più stupisce, però, è che il dna di tutte le piante presenti nel "recinto" storico del Getsemani è identico. Si tratta cioè di esemplari tratti da un’unica pianta madre. Non dai suoi semi (perché tecnicamente dai semi di una stessa pianta non nascono piante identiche), ma da talee ottenute con rami vivi recisi da essa. Si tratta inoltre di alberi perfettamente sani. Non affette da alcuna malattia, nemmeno di carattere ambientale come quelle generate da pur presenti fonti di inquinamento. Come se (Cimato lo ha definito «un piccolo miracolo») il terreno sul quale crescono sia capace di bloccare la proliferazione di batteri, insetti e virus capaci di attaccare radici e legno. Così oggi quelle piante sono in grado di vegetare e di fruttificare per altri secoli ancora, oltre che di produrre un olio con caratteristiche superiori e chimicamente uniche. Ma andiamo per ordine. Gli ulivi più antichi del Getsemani sono otto. Particolarmente contorti, presentano tronchi svuotati al centro. La parte più antica di essi, in sostanza, non esiste più. Per la datazione con metodologia dendrometrica (basata su misurazioni e caratteristiche biologiche della pianta) e per quella con la cosiddetta tecnologia del "carbonio 14", ne sono stati scelti tre. I prelievi sono stati effettuati nel 2010 e il C14 è stato rilevato in due distinti laboratori: Vienna e Università del Salento. L’incrocio dei dati ha condotto a datare la prima pianta al 1198, la seconda al 1092, la terza al 1166. Valutando il normale
range di errore e la diversa conservazione del legno in ciascuna pianta, è quindi presumibile che i tre tronchi abbiano cominciato a vegetare negli stessi anni. Cioè nel periodo in cui i crociati, riconquistata Gerusalemme (1099), hanno ricostruito le basiliche (quella del Getsemani è datata fra il 1150 e il 1170) e risistemato i luoghi sacri, quindi anche l’orto degli ulivi. Ma come ha ben spiegato Gianfrate, gli ulivi sono tecnicamente immortali. Se vengono tagliati o bruciati, sono in grado di rigermogliare da quel che resta dei loro ceppi o da una semplice radice rimasta celata nel terreno. Insomma, se anche i musulmani avessero distrutto quell’orto (proprio in quanto luogo sacro ai cristiani), i crociati potrebbero aver trovato (Gianfrate lo ritiene molto probabile) dei cespugli incolti di olivi precedenti che, opportunamente curati, hanno generato i tronchi che oggi possiamo vedere. In ogni caso, essendo il loro Dna identico, sia nelle radici, che nel tronco e nelle foglie, significa che le otto piante hanno un’unica origine anche nei loro ceppi predecessori. Origine che, è stato sottolineato in conferenza stampa, si deve comunque a una mano che, traendo le talee da un unico soggetto, potrebbe aver voluto perpetuare proprio quel preciso olivo (aveva forse un significato particolare?), non uno qualunque. E, seguendo questo ragionamento, considerando che le notizie storiche della coltivazione di olivo in quel sito risalgono al terso secolo a.C., la cura successiva di ortolani e contadini, anche per la sacralità del luogo, potrebbe aver portato alla singolarità del fatto che gli alberi di oggi siano geneticamente identici (cioè gli stessi) di quelli di duemila anni fa. Ecco perché, ha ricordato padre Pizzaballa, «per ogni cristiano questi ulivi costituiscono un riferimento "vivente" alla Passione di Cristo». In questo senso «raffigurano il "radicamento" e la "continuità generazionale" della comunità cristiana della Chiesa Madre di Gerusalemme. Come questi ulivi, nel corso della storia sono stati piantati, bruciati, abbattuti e di nuovo germogliati su una inesauribile ceppaia, così la prima comunità cristiana sopravvive vigorosa, animata dallo Spirito di Dio, nonostante gli ostacoli e le persecuzioni».