Lo vedi suonare a memoria le grandi pagine che Antonio Vivaldi, Johann Sebastian Bach e Wolfgang Amadeus Mozart hanno scritto per il violino e pensi che per lui il linguaggio della musica non ha segreti. Che è qualcosa di naturale, un linguaggio "parlato" da sempre. Poi, quando le note lasciano spazio alle parole, Uto Ughi ti spiazza. Perché ti dice che «il linguaggio della musica non lo si impara mai davvero».Il violinista, classe 1944, domani chiuderà la seconda edizione Festival della comunicazione di Camogli (organizzato da Umberto Eco, ha visto 120 ospiti confrontarsi sui diversi linguaggi, da quello della cultura a quello della scienza, da quello delle imprese a quello musicale appunto) e racconterà che «il fare musica è una ricerca continua di idee, di stimoli, di creatività, di nuovi orizzonti. E l’apprendere il linguaggio delle note è un traguardo che non si raggiunge mai».
Eppure, maestro Ughi, quello della musica è un linguaggio che lei conosce da sempre: il primo violino a sei anni, a 12 già concertista affermato.«Un linguaggio che però è come un miraggio, che quando ti sembra di aver afferrato ti sfugge. La parola ha un senso preciso, dal quale non si può scappare; un termine vuol dire esattamente quella cosa. E le parole poi cambiano, secondo le lingue, da nazione a nazione. La musica, invece, non è razionale, è un linguaggio che non ha bisogno di traduzione perché è un’arte che va al cuore dell’ascoltatore, è capito con la stessa intensità in Paesi di lingue, usi e tradizioni diversissime. Quello della musica è un linguaggio spirituale, che parla all’anima dell’uomo. Si presta a molteplici letture, può avere diversi significati. Ecco perché la ricerca e lo studio sono fondamentali, per essere interpreti efficaci dei grandi capolavori che il passato ci ha consegnato».
Questo della necessità dell’interprete non è un paradosso, un limite del linguaggio musicale?«Potrebbe essere letto come una contraddizione. Non invece se intendiamo il ruolo dell’interprete come colui che si pone tra autore e ascoltatore per far arrivare una pagina musicale. Sta poi a chi ascolta far risuonare le note nella sua anima per poterle interpretare secondo la propria sensibilità».
Se dovesse scegliere qual è il linguaggio più efficace? La parola o la musica?«Non si può dire. Sono due vie diverse per arrivare alla verità. Poi capita che, incontrandosi, parole e note diano origine a grandi capolavori come la Nona di Beethoven».
Però capita pure che per comprendere alcuni tipi di arte a volte occorre la parola. Perché certi capolavori hanno la necessità di essere spiegati?«In un Paese dove la musica è diffusa e quindi conosciuta questo non occorre. Ma in nazioni come l’Italia dove la scuola non insegna il linguaggio musicale occorre, anzi è doveroso, spiegarla. Lo sperimento nei concerti, quando mi capita di introdurre con poche parole i brani che poi eseguirò, non certo in modo cattedratico, ma con parole semplici che aiutino il pubblico a comprendere e quindi a fare proprio quel tipo di linguaggio. La scuola dovrebbe fare questo, dare gli strumenti per poi muoversi da soli nell’universo dei suoni».
Come si potrebbe insegnare la «grammatica» del linguaggio musicale? Le nostre scuole, dice lei, non fanno molto…«Le scuole non fanno nulla, diciamolo. Ed è una colpa. Ci sono grandi capolavori che potrebbero essere usati per avvicinare i ragazzi alla musica e per educarli al bello, ma non vengono sfruttati».
Questa per lei non è una battaglia nuova, si è sempre speso per dare dignità all’insegnamento della musica nelle scuole.«Con risultati spesso scarsi e deludenti, ahimè, soprattutto sul fronte della sensibilizzazione delle istituzioni. Penso che, specie in momenti di crisi come quelli che stiamo vivendo, occorre spendersi perché l’amore per l’arte e il bello si diffonda, come strumento di educazione. Noi artisti abbiamo a che fare con qualcosa di sacro che dobbiamo far conoscere a più gente possibile. Come? Unendo le forze, facendo dialogare le arti. E poi guardando con rispetto alla tradizione: i grandi interpreti sono sempre stati l’ossigeno della mia vita artistica, quasi una trasfusione di sangue. Ho imparato tanto e continuo a farlo seguendo i concerti dei miei colleghi. Perché non c’è una sola via per giungere alla verità. E il confronto è sempre fondamentale».
Oggi spesso la parola è deturpata e svilita nella sua ricchezza e potenzialità da un linguaggio, messo in campo da mezzi di comunicazione e social network, che la svilisce. La musica corre questo rischio?«Certo, ci sono musiche volgari e deturpate. La musica è un’arma a doppio taglio perché può innalzare lo spirito, ma anche abbassare l’uomo a livelli infimi. Lo diceva già Thomas Mann spiegando che la musica ci innalza se tocca la parte migliore di noi, se invece narcotizza rende anche peggiori. Attenzione, non ne faccio una questione di musica classica o contemporanea, ma di musica buona e cattiva. Di musica cattiva ce n’è, inutile negarlo. E purtroppo i media fanno di tutto per diffondere proprio quella».