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Letteratura. L'Ucronia di Emmanuel Carrère: quando la storia è fatta con i "se"

Alessandro Zaccuri lunedì 7 ottobre 2024

Emmanuel Carrère

Nel 1986, quando Emmanuel Carrère pubblica il saggio ora proposto da Adelphi con il titolo di Ucronia (traduzione di Federica Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco, pagine 160, euro 14,00), il termine gode di una circolazione ancora molto limitata. È una sciccheria per eruditi oppure un sottogenere della fantascienza, grossolanamente qualificato come “fantastoria”. Non diversamente dall’utopia, anche l’ucronia ha il suo testo di fondazione: nel primo caso a escogitare la dicitura è un santo, sir Thomas More, nel secondo la paternità è rivendicata da Charles Renouvier, che nel 1876 dà alle stampe la prima Ucronia conosciuta. «Utopia nella storia», la definisce il filosofo francese, giusto a ribadire la parentela fra le due nozioni. In entrambi i casi, ci si muove nell’ambito che sta tra l’inesistenza e la possibilità. La “u” iniziale rimanda alla negazione greca “ou”, dopo di che si tratta di scegliere se applicarla al luogo (topos, da cui utopia) o al tempo (chronos, da cui ucronia). Per dirla alla buona, l’ucronia è la famosa storia fatta con i se, che in teoria non si dovrebbe fare, ma che da Renouvier in poi molti hanno provato a immaginare.

Ecco, il punto è proprio questo: l’immaginazione, risorsa narrativa per eccellenza, che da sola ampiamente giustifica l’interessa che il giovane Carrère (lo scrittore, ricordiamolo, è nato nel 1957) dimostra per l’argomento. L’autore stesso lo ammette all’inizio della trattazione, nel momento in cui osserva che «qualsiasi opera di finzione, a meno che non sia ambientata nel futuro, modifica, in un modo o nell’altro, il passato». E ancora: «Qualsiasi forma di creazione romanzesca sfiora l’ucronia, nella misura in cui incorpora nella trama di una storia nota degli avvenimenti immaginari». L’esempio scelto da Carrère è abbastanza rivelatore, anzitutto perché viene dalla letteratura francese (senza dubbio la più citata nel corso del libro) e poi perché riguarda la figura di Napoleone Bonaparte, dal cui ipotetico trionfo a Waterloo prende le mosse la fantasmagorica trattazione di Renouvier. La Certosa di Parma, dunque, e Fabrizio Del Dongo che si aggira per il campo di battaglia senza mai comprendere che cosa stia accadendo. Peggio ancora, senza neppure riconoscere l’Imperatore nell’ufficiale che cavalca non lontano da lui, comparsa tra le comparse nel bailamme del combattimento.

L’episodio rievocato da Carrère desta particolare interesse per la sua apparente irrilevanza. Quello di Stendhal non è infatti l’unico capolavoro dell’Ottocento in cui Napoleone venga convocato come figurante. Lo ritroviamo nei Miserabili di Hugo, lo ritroviamo – in particolare – in Guerra e pace di Tolstoj, dove veramente siamo a un’incollatura dall’ucronia. Che cosa accadrebbe se Pierre riuscisse a portare a termine il suo goffo tentativo di tirannicidio? Se Napoleone morisse per un colpo di pugnale lì, nel mezzo di una campagna di Russia né vinta né persa, quale direzione prenderebbe il corso degli eventi? Carrère si accontenta di meno. In realtà, ci sta dicendo che per la coerenza del mondo fattuale lo sguardo perplesso del Fabrizio di Stendhal rappresenta un pericolo non meno insidioso della lama inutilmente brandita da Pierre.

Certo, scorrendo le pagine di Ucronia si prova spesso la sensazione di trovarsi in un universo ucronico. Quarant’anni fa o giù di lì, l’espediente non aveva ancora raggiunto la popolarità che oggi lo rende pervasivo. Basti pensare che, tra le diverse opere citate da Carrère, l’unica di cui ancora si discute è La svastica sul sole (o, meglio, L’uomo nell’alto castello) di Philip K. Dick, che nel 1962 immaginava quali sarebbero le sorti del mondo se a vincere la guerra fosse stato Adolf Hitler. Volendo individuare un punto di svolta, si potrebbe segnalare Fatherland di Robert Harris, che nel 1992 riprende la congettura di Dick e, semplificandola, la trasforma in bestseller globale. Da lì in poi è un tripudio di what if, di che cosa sarebbe successo se le cose fossero andate in un’altra maniera.

Ormai affrancata dall’originaria condizione di stravaganza, l’ucronia si è conquistata un posto di tutto riguardo nel salotto buono della letteratura internazionale. Lo ha confermato nel 2019 Macchine come me di Ian McEwan, un romanzo nel quale tutto quello che crediamo di sapere si rivela in qualche misura falso. Alan Turing non è morto nel 1954, tanto per cominciare, e la Gran Bretagna è all’avanguardia nel campo della robotica. In compenso, la guerra contro l’Argentina è stata perduta, le Falkland si chiamano Malvinas e di questo a Londra ancora non si capacitano. Nel racconto di McEwan l’ucronia si insinua fin nei dettagli, compresa la titolazione di alcuni capisaldi della tradizione letteraria (liberi di non crederci, ma Tolstoj ha davvero pensato a Tutto è bene quel che finisce bene come a una ragionevole alternativa per Guerra e pace).

Sullo sfondo, si avverte la potenza deflagrante delle rivoluzioni scientifiche novecentesche, che non per niente sono alla base di alcune fortunate serie tv, quali Il problema dei tre corpi e Dark Matter, tratte rispettivamente dai romanzi di Liu Cixin e di Blake Crouch. Non siamo alle vette di Macchine come me, ma la contaminazione tra l’ucronia, considerata da Carrère alla stregua di «gioco mentale», e la sperimentazione concettuale del multiverso produce risultati niente affatto trascurabili. Perché l’ucronia sarà sì una «fuga dalla realtà», osserva Carrère, ma resta nondimeno «accompagnata da una deliberata immersione nella realtà, nei suoi fatti, nei suoi numeri, nella sua presenza testarda e concreta». Anziché contraddire la storia così come la conosciamo, insomma, l’ucronia finisce per confermarla, lasciandoci intuire il significato profondo di quello che è effettiva mente accaduto. Non vivremo nel migliore dei mondi possibili, forse. Ma è l’unico mondo in cui possiamo vivere. Per il resto, non c’è che da fare affidamento sulla finzione, che è l’arte di dire la verità facendo finta di mentire.