Agorà

REPORTAGE. Ucraina, l'oro sotto la cenere

domenica 5 settembre 2010
Il bambino biondo con il cappello a visiera avrà sì e no otto anni. Sorride e si gratta la testa mentre il nonno gli descrive quel curioso monumento in bronzo che sembra un fumetto. Racconta del tram che per la prima volta nel 1891 si inerpicò lungo la collina di Kiev unendo piazza Zar alla Demiivs’ka. Un’ultima grattatina al capo, poi giù di corsa lungo le vie del porto mentre un pittore ispirato colora il cielo di nero esaltando le cupole dorate delle basiliche. Tra poco pioverà. Gocce sottili e fittissime che sollevano polvere e afa nel caldo pomeriggio d’estate. L’ombrello però non serve. La gente continua a camminare tranquilla, i turisti a fotografare la chiesa di San Nicola Naberezhny proprio in riva al fiume.Vista dalle acque del Dnepr la capitale ucraina è bellissima con l’intreccio dei viali alberati e l’invasione della bancarelle di souvenir lungo l’acciottolato della discesa di Andrea o «Andriyivsky uzviz». Il cuore spirituale della metropoli però è altrove, tra i mosaici della cattedrale di Santa Sofia, nell’azzurro del monastero di San Michele dalla Cupola Dorata con il monumento alle vittime della grande carestia, dentro il fitto complesso sacro del Kievo-Pecherska Lavra. Nelle grotte vicine si entra dalla chiesa dell’Esaltazione della Croce: nel sottosuolo un po’ claustrofobico sono conservati i corpi mummificati di 123 monaci. Alla luce tenue di una candela, i pellegrini si raccolgono in preghiera, baciano i piedi dell’uno, si segnano dopo aver toccato le mani di un altro. È qui che il caos di Kiev diventa calma e silenzio. Lontano dalla confusione di Piazza Indipendenza, nel 2004 la «casa» della rivoluzione arancione, dove la gente si incontra tra gli angeli di pietra, nella cornice delle tante fontane, mentre lo sguardo si fissa sul grande centro commerciale con le vetrine sfolgoranti. Commercio e cultura, futuro e tradizione, si potrebbe dire voglia di Occidente e nostalgia per la grande madre Russia: sono gli atri e i ventricoli dello stesso cuore pulsante in una «city» verso cui tutte le strade sembrano convergere e finire. In poche altre realtà il contrasto tra gli opposti appare tanto evidente, così come la voglia di stare insieme, il senso di un’appartenenza comune. Accanto al signorotto in doppio petto firmato e il gel nei capelli ecco l’ambulante che ti offre icone per poche «grivnie» e per un suv extralusso ci sono almeno un paio di scalcagnate utilitarie di stampo sovietico color avorio. Pazza, affascinante Ucraina, con le miniere che ogni anno vomitano centinaia di morti, sospesa tra la voglia di iPad e le campagne povere dove si fa ancora il bucato al fiume e per una donna la laurea vale meno di un posto da badante in Italia. Non sono molte quelle che arriveranno da Yalta, «la perla della Crimea», dall’allegria vaporosa e un po’ kitsch del lungomare con la statua di Lenin costretta a convivere con un ingombrante Mc Donald’s. Nelle sere tiepide, file di turisti scattano foto ricordo indossando le parrucche e i vestiti regali affittati da un chiosco-giostra mentre due ragazze fasciate in abitini attillati preparano il loro «book» in groppa a una Harley Davidson. Falsa. Per chi ama raccoglimento e cultura c’è la cattedrale di Alexander Nevsky, raggiungibile anche su una traballante seggiovia, e soprattutto l’inevitabile Palazzo Livadia, il luogo della celebre «Conferenza di Yalta» del 1945. Più austera e forse per questo meno artificiosa la casa di Cechov e l’illusione di essere sotto il famoso ciliegio mentre dal pianoforte sembra di sentire ancora le note di Rachmaninov. Un po’ del grande medico drammaturgo si trova anche nel museo della letteratura di Odessa accanto agli ucraini Shevchenko e Franko e agli altri monumenti russi Puskin, Tolstoj e Gorky. Però il più grande porto commerciale dell’Ucraina respira soprattutto lungo i grandi viali alberati, vive il suo presente tiepido e dorato nei palazzi neoclassici dai colori pastello che i bambini imparano a riprodurre nei parchi, all’aperto. Odessa è la memoria di Caterina la grande che nel XVIII secolo richiamò qui immigrati da tutta Europa, è la celebre scalinata Potemkin, immortalata dal film di Eisenstein ridicolizzato dalla folgorante battuta di Fantozzi-Villaggio. 192 gradini di suggestione assoluta che un po’ richiamano l’affascinante inquietudine di Sebastopoli con le sue 38 baie. Imperdibile la colonna dell’Aquila in cima a uno scoglio, memoria delle navi russe che nel 1854 decisero di autoaffondarsi per impedire l’accesso al nemico. Ma la guerra è la cifra anche del «panorama dipinto», diorama disposto lungo le pareti di un edificio circolare a ricordo dei 349 giorni di assedio di Sebastopoli durante il conflitto di Crimea. Ed è bello sentire l’orgoglio un tantino ingenuo delle guide che richiamano l’eroismo dei soldati, il lucido coraggio dell’ammiraglio Nakhimov che dall’alto del suo piedistallo domina il porto sul Mar Nero. Qui, dove la gente parla ancora comunemente il russo, la flotta di Mosca convive molto bene con quella ucraina, testimonianza di un’unità «spirituale» che solo la politica ha diviso. Un legame storico che si respira persino di più a Zaporozhye, tagliata in due dalla Prospekt Lenina, oltre 12 chilometri di strada che riassumono la storia di un intero Paese. Città solo in apparenza grigia come le industrie dismesse, chiusa a nord dall’isola di Khortytsya, con l’imponente bruttezza della diga Dniproges. Finito l’anno scolastico ragazzi e ragazze ridono dalle balaustre sul panorama modificato dall’uomo, mentre l’ennesimo, enorme Lenin osserva distratto. Di lì a pochi metri è il caos del traffico, è la teoria di vecchie costruzioni abbruttite che si alternano ai nuovi edifici, è la famigliola che passeggia calma nel giardinetto mentre due anziani si fermano davanti al mausoleo che ricorda le vittime ucraine di tutti i conflitti. Zaporozhye è una città sospesa tra la triste eredità sovietica e la voglia di futuro, incerta come l’orologio dai quattro quadranti, ognuno con un’ora diversa, sotto cui si danno appuntamento i fidanzati. Per certi versi l’immagine di un Paese intero che fatica a vivere il suo tempo dopo l’ubriacatura della Rivoluzione arancione e il malinconico ritorno sotto l’ala «protettiva» di Mosca, desideroso di una guida forte mentre cerca di sanare le ferite del terribile «ieri» staliniano. Un gioco di specchi dove il moltiplicarsi delle boutique non annulla il sospetto verso l’Occidente, in cui la voglia di fuga è altrettanto forte del bisogno di tornare, che crede nel progresso purché non rinneghi la tradizione. Inutile sperare che il «cicerone» di turno introduca il discorso su Chernobyl, però di quella devastante ecatombe è stato fatto un museo. Dove i turisti fanno la fila.