Riletture. Tutto l'amore di Eliot per l'universo dantesco
T.S. Eliot
A tributare un entusiastico omaggio a Dante in Inghilterra non è il Medioevo – in tempi in cui, pure, Chaucer e gli scholars guardavano con ammirazione alla cultura italiana; non è il Rinascimento, che riversa nella produzione drammaturgica di un Marlowe, di uno Shakespeare, di un Jonson e di altri tutta una soggettistica, anche minore, di narrazione per la scena, coltivata nelle corti della nostra penisola; non sono neppure il secondo Seicento e il Settecento quando l’isola al di là della Manica comincia ad assumere dimensioni, ignote al mondo, di potenza commerciale lanciata sui mari, mentre il suo popolo di servi della gleba prende ad affrancarsi dalla secolare servitù ai landlords per diventare un “popolo sulle navi” e l’alta voce di Milton a farsene anima. Per tutti questi secoli Dante rimane un fenomeno italiano e le forzature che periodicamente vengono tentate da chi cerca d’intravvederne l’immensa statura poetica dappertutto, vengono smentite dall’assenza di mutuazioni dantesche tra i maggiori poeti e scrittori inglesi dal XIV al XVIII secolo. Sono invece l’Ottocento e il Novecento, per un percorso particolarissimo, a far deflagrare Dante oltre Manica. Nei primi decenni dell’Ottocento l’Inghilterra è ormai un’irraggiungibile entità economica che si avvia a controllare un quarto del pianeta. E per vie misteriose Dante assurge a riferimento ineludibile per più correnti e più filoni della poesia, della critica, del pensiero, della figurazione e di ogni espressione artistica. Non solo episodici traduttori, ma grandi poeti s’ispirano a lui, quali Shelley, Keats, Byron (senza dimenticare le illustrazioni del poeta/artista Blake) nell’Ottocento; e, nella prima metà del Novecento, Pound ed Eliot. Ed è soprattutto con Thomas Stearns Eliot (18881965) che si raggiunge un ineguagliato punto di lucidità sulla grandezza di Dante; con l’autore di La terra desolata e dei Quartetti la rappresentazione morale dantesca della condizione umana e la sua proiezione dalla finitudine all’infinito vengono ricollocati al centro di ogni indagine su di essa. Cosa scrive Eliot di Dante? Lo commenta e cita, anche in italiano, moltissime volte dedicandogli anche i saggi Dante I (del 1920, che precede di due anni la pubblicazione di La terra desolata); il corposo Dante II (del 1929) e Cosa significa Dante per me (del 1950, testo dell’intervento di Eliot all’Istituto italiano di cultura di Londra). Converrà attingere a questo terzo scritto, stilato da Eliot un anno e mezzo dopo il conferimento del Nobel per la Letteratura, non solo perché è più diretto e personale, ma perché è più tardo rispetto agli altri e quindi meglio riassume i modi e i toni di un amore durato una vita, a partire da quando ne era stato conquistato da ragazzo: «Considero la sua poesia come quella che ha avuto l’influenza più duratura e profonda sui miei versi». A sedurlo è la «assoluta precisione» di ogni verso e di ogni singola parola, che fa di Dante «il più accorto studioso dell’arte della poesia», «il più serio, attento e scrupoloso professionista del mestiere di poetare», nel quale nessun poeta inglese può essergli comparato, neppure Shakespeare o Milton, «in quanto poeti a lui inferiori, e anche tecnici a lui inferiori nel mestiere». Dante per Eliot non è soltanto il maieuta del volgare, o italiano comunemente parlato, nel senso che non l’aiuta a venire al mondo, lo genera, proprio; è… madre della sua “madrelingua”; e senza di lui «il linguaggio corrente non sarebbe quello che è, si tratti del linguaggio di un poeta, di un filosofo, di uno statista o di un facchino delle ferrovie ». Ovviamente nessuno parla oggi la lingua di Dante – conclude – ma non importa che non abbia eredi; conta l’universale operazione di aver indicato ai posteri le possibilità d’espansione della resa del pensiero e del “sentire”, propri nella Divina Commedia della volgare eloquenza usata dal suo popolo ma, in differenti favelle, anche da tutti gli altri popoli. Dante infatti, prima che a parlare, insegna a sentire: «La Commediaesprime nell’ambito dell’emozione tutto ciò che, compreso tra la disperazione della depravazione e la visione della beatitudine, l’uomo è capace di sperimentare » e senza di essa l’uomo non avrebbe verbo per dare nome e forma al suo stesso sentire.