La città ideale. Un’utopia coltivata da due secoli. Spazi urbani immaginati diversamente da quelli che sono, vivibili, a misura d’uomo. La «rivoluzione industriale», probabilmente, diede il la alla rilettura delle città. Ma fu il secolo scorso quello che vide gli sforzi maggiori nell’ipotetica modifica delle aree urbane. Che crescevano a dismisura, spesso dissennatamente. Fu un architetto italiano, Antonio Sant’Elia, a pensare nel 1914 alla «Città nuova»: era l’idea di una città verticale dove venivano riunite case, industrie e centri di servizi. Ma come non ricordare «Futurama», quella mostra all’Esposizione universale di New York (siamo nel 1939) che proiettava in un futuro di megalopoli unite ai sobborghi urbani da una ragnatela di autostrade? L’automobile inizia il suo avanzare incontrastato, si fa largo tra i palazzi, chiede spazi sempre maggiori. Son trascorsi 80 anni e quella visione sembra concretizzata nell’inferno delle metropoli attuali, intasate di traffico e di vie di comunicazione sempre più brulicanti di vetture, formichine impazzite, impazienti di giungere a destinazione. Un architetto svizzero-francese, Charles-Edouard Jeanneret-Gris, in arte Le Corbusier (1987-1965), nel secolo scorso immaginava la città attuale – la «
Ville Contemporaine» – caratterizzata da strade a scorrimento veloce su più livelli nel cuore di grandi centri abitati. Quella previsione si è avverata. Senza guardare le grandi strade americane, che la tv ci propina con sovrapposizioni e cavalcavia all’apparenza stagliati col polistirolo, basta pensare alla «sopraelevata» di Genova – amata e odiata nel capoluogo ligure per l’offesa al panorama marino – o ai viadotti di Milano come il ponte della Ghisolfa (pardon… «viadotto Adriano Bacula») solo per fare due esempi. Il tutto in superficie. Già, in superficie con un impatto ambientale, diciamo così, discutibile. Ma se l’occhio umano non gradisce certi obbrobri – «ecomostri» li definiamo oggi – perché allora non giocare a nascondino trasferendo le auto e i treni urbani sotto terra? Il primo passo riguardò proprio il trasporto su ferro. Le metropolitane,
subway appunto, finiscono nel ventre delle città. Scelta obbligata, si potrebbe dire. Anche se non sempre è così, perché proprio le più vecchie linee americane cominciarono a sferragliare su inquietanti manufatti in acciaio rialzati. Ma poi prevalse l’
underground, il «sotto terra». Come a Londra, dove la prima linea interrata funzionava già dal 1863! Non poteva proprio definirsi metropolitana poiché, di fatto, era una ferrovia con addirittura i vagoni distinti in tre classi. Nella capitale britannica la vera
underground arriverà nel 1907: sette anni dopo Parigi (1900) e 28 prima di Mosca (1935). Tre storie che indicano una scelta più che mai seguita negli anni a venire e ormai irrinunciabile. Opere d’ingegneria straordinarie, diventate valore aggiunto non solo perché in grado di garantire una qualità della vita migliore ma anche perché le stazioni assurgono a contenitori artistici: la metropolitana di Mosca, con i suoi mosaici, è un meraviglioso esempio che finisce poi coll’essere esportato altrove, pensiamo al recentissimo modello di Napoli, giusto per restare in casa nostra. La scelta di scavare nel cuore delle metropoli non può essere arrestata.Basti pensare che nello Stato di
New York è in previsione una spesa, nei prossimi anni, di 20 miliardi di dollari in tunnel a servizio di metro e viabilità. Nel settore delle metropolitane non mancano, ovviamente, i progetti di ampliamento dell’esistente, con allungamenti e diramazioni sempre più pronunciate. Così come per il trasporto su gomma, si pensi a
Milano che sogna un «passante» ovest-est (Rho-Linate) valvola di sfogo al perdurante intasamento urbano e a
Genova con un mega-tunnel sottomarino (per poi abbattere la «sopraelevata»). Nel nostro Paese l’interramento delle strade procede a rilento. Le opere realizzate, in realtà, sono fondamentalmente sottopassi o brevi arterie come troviamo a Torino, così come a Milano, Roma e Napoli. Ma anche in città più piccole come
Savona (per l’accesso al porto) o
Cesena dove la galleria delle Vigne (secante sotto la città con i suoi 1600 metri) è considerata la più ecologica dello Stivale grazie all’impianto di ventilazione che filtra l’aria fino all’80%. Anche se il tema inquinamento resta aperto. Secondo una ricerca della
Qeensland University of Technology di
Sydney, in Australia, nel tunnel cittadino M5 Est le concentrazioni di particolato fine (il più dannoso per la salute) sono quasi mille volte superiori a quelli dell’aria di superficie. Oltre agli impianti di ventilazione, poi, vi sono aziende che commercializzano rivestimenti fotocatalitici che trasformerebbero le particelle inquinanti in composti non dannosi per l’uomo e l’ambiente. Esiste un altro aspetto tutt’altro che trascurabile, quello della sicurezza. La Comunità europea ne cominciò a parlare nel 1986 e indisse l’Anno europeo della sicurezza stradale.Allora Margaret Thatcher scrisse un «Manifesto» che venne consegnato ai ministri competenti dei Paesi che facevano parte della Comunità. Vi si leggeva, tra l’altro: «I governanti devono prendere atto che i costi sociali ed economici degli incidenti stradali sono troppo elevati, sensibilizzando tutte le istituzioni e tutte le coscienze». Sarebbe da studiare quanto e cosa è cambiato. Certo è che i tunnel sono poi stati (involontari) protagonisti di tragici eventi. Pur non essendo accaduti in gallerie cittadine, le tragedie del Monte Bianco – 39 morti – e nella galleria austriaca del Tauri (entrambe nel 1999) e del traforo svizzero del Gottardo (2001) hanno lasciato il segno anche se, da allora, sono state introdotte norme di circolazione più restrittive e i sistemi antincendio sono stati migliorati. Tornando al realizzato e al futuribile, in Italia dobbiamo senz’altro ricordare una grande opera, il tunnel di
Lecco: un sistema di gallerie che libera la città lombarda dal traffico infernale dell’asse Milano-Valtellina che era costretto a riversarsi nel centro cittadino. Il by-pass, inaugurato il 25 ottobre 1999, per una lunghezza complessiva di 11 chilometri costati 600 miliardi di lire, ha visto sinora un transito di 60 milioni di veicoli che altrimenti avrebbero – poco romanticamente, è il caso di dirlo – costeggiato il lago! Si lavora invece di gran lena anche a
Monza per il tunnel di viale Lombardia sulla statale 36. Un «buco» – che andrà a liberare dai veicoli due quartieri (Triante e San Fruttuoso) – di 2 chilometri, largo 50 metri che ospiterà 6 corsie e sarà dotato di uscite di sicurezza ogni 250 metri; a lavori conclusi (2011) vi transiteranno 120mila veicoli al giorno. Uno sguardo al di là dei confini ci porta a scoprire che ad
Oslo, in Norvegia, agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso è stato realizzato un tunnel che attraversa la città. Contemporaneamente veniva adottato un sistema di pedaggio per l’accesso al centro urbano; l’investimento per la realizzazione è stato ripagato grazie ai pedaggi per l’entrata nella
city. Più vicino a noi a
Marsiglia, in Francia, tra il 1991 e il ’93 (33 mesi!), sfruttando un tunnel ferroviario in disuso, hanno costruito il Tunnel Prado Carénage: 2 chilometri e mezzo a pagamento nel cuore della città. Successivamente ne è stato realizzato un altro e attualmente ne è in costruzione un terzo. A
Madrid la variante sud della M30 è stata realizzata tra il 2003 e il 2007: 3,7 chilometri di lunghezza per decongestionare il traffico di superficie da 80mila veicoli al giorno. Ultimo esempio tra tanti è quello di
Amburgo: l’Elbtunnel – realizzato tra il 1995 e il 2002 per una lunghezza di 3 chilometri e cento metri – attraversa il fiume Elba ed è parte integrante dell’autostrada A7.