Agorà

Il caso. TUNISI, lavagne a cielo aperto

Paolo M. Alfieri sabato 18 luglio 2015
C’è stato un momento in cui un Paese intero ha scoperto una nuova forma di comunicazione. Quell’insieme di calce e mattoni dietro cui il potere per decenni aveva trincerato se stesso, è diventato a un certo punto più invitante di una radio, di una tv. Prima del 2011 in Tunisia nessuno (se non qualche ultrà di calcio) aveva mai osato scrivere su un muro, affidare a quelle lavagne a cielo aperto la propria arringa politica, il proprio orizzonte religioso e culturale. La primavera araba, quel vento impetuoso che nel 2011 comincia a soffiare proprio da queste parti, porta in dono ai tunisini non solo la rivoluzione e la caduta dell’odiato presidente-dittatore Ben Ali, ma anche, forse soprattutto, la libertà di parola. È così che un’esplosione di voci 'investe' i muri di Tunisi e delle altre città del Paese: tutti, finalmente, possono e vogliono parlare. Ma soprattutto scrivere. Giovani radicali, conservatori, islamisti, nostalgici del panarabismo e nemici dei sindacati e degli scioperi. Scrivono i colti e gli ignoranti, i benestanti e gli indigenti. E scrivono sempre e solo di attualità, perché per un tunisino nel mezzo della rivoluzione il neonato graffito non può che essere per sua stessa natura 'impegnato'. Il fermento socio-culturale provocato dalla creazione di questo nuovo 'spazio sociale' è inarrestabile. Il dibattito spontaneo e pubblico che ne scaturisce testimonia la pluralità delle forme di partecipazione a un importante momento storico per la Tunisia e l’intera regione. Un dibattito ormai cristallizzato che ci viene consegnato intatto grazie al libro di una 28enne italiana, Luce Lacquaniti, che ha vissuto per un anno in Tunisia tra il 2012 e il 2013. Nel volume I muri di Tunisi. Segni di rivolta (Edizioni Exorma, pagine 176, euro 18) grazie a foto e a testi preziosi trovano spazio il discorso sulla rivoluzione e l’islamismo, ma anche la questione di genere e i diversi volti della repressione. A confrontarsi sono anime diverse. Come in questo caso, in nero: «Vivva la Tunisia libera e democratica» (con errore di ortografia); in rosso: «I rivoluzionari dicono: non potete prenderci in giro»; a matita: «Non c’è altro dio all’infuori di Dio e Maometto è il suo profeta». Il tutto spesso sovrapposto sullo stesso muro e nello stesso momento.  Sfilano davanti ai nostri occhi la grande Avenue Bourguiba e la ville nouvelle eredità dei francesi, i quartieri popolari, la medina araba, le disastrate stazioni dei tram di periferia, composito mosaico urbano impreziosito da giochi di parole, rivendicazioni, disegni. «Quant’è bella la Tunisia senza Ben Ali Baba e i 40 ladroni!», si legge alle rcades di Avenue de France. Perché proprio la corruzione e il fiume di soldi sottratto al Paese dal clan Trabelsi, famiglia della moglie di Ben Ali, sono state tra le micce che hanno scatenato la rivoluzione. «La libertà è una pratica quotidiana», è l’ammonimento che si staglia sul muro a fianco.  Si fa largo lo slogan «Il popolo vuole» e «I rivoluzionari dicono», declinati in diversi modi. Tra le richieste quella di «un sistema parlamentare», ma c’è anche chi ribatte sullo stesso muro: «Sistema presidenziale equo, non sistema parlamentare ignorante. Noi non siamo ponti da attraversare». «Chiunque - osserva Lacquaniti - può prendere una bomboletta e scrivere 'i rivoluzionari dicono', o 'il popolo vuole', seguito da qualsiasi cosa, o il suo contrario. E in effetti è proprio quello che succede ». Potenza del nuovo 'mezzo' di espressione. C’è spazio, ovviamente, per l’emergenza sociale. «Per lavoratori o disoccupati il costo della vita è diventato un inferno. Ci avete affamati». E ancora: «I prezzi si sono infiammati e il bilancio è stato saccheggiato». Spazio nel nuovo dibattito sociale anche ai diritti delle donne: «Impegniamoci perché siano inserite in Costituzione leggi che tutelino la dignità e l’uguaglianza». Oltre alla soddisfazione, all’indomani delle elezioni parlamentari del 26 ottobre 2014, perché «vince la Tunisia. Il primo paese democratico del mondo arabo». Spesso le scritte giocano con le parole dei grandi poeti arabi, in altri casi mescolano il dialetto locale allo slang giovanile, il francese della cultura ' alta' all’italiano di Rai1 e degli emigrati di ritorno. C’è chi sostiene che la Tunisia sia l’unico Paese in cui, a dispetto di tutto, la primavera araba ha avuto successo. Altri, tra cui l’arabista Laura Guzzone, la ritengono «l’unico Paese in cui il processo rivoluzionario ha dato luogo a una transizione politica relativamente pacifica e patteggiata tra le élites, invece che a una transizione punteggiata da ricorrenti crisi violente, come in Egitto o in Yemen, o guerreggiata, come in Libia e in Siria». Sia come sia, i recenti attentati al museo del Bardo e sulla spiaggia di Sousse mostrano quanto fragile ancora sia il tessuto di uno Stato in divenire. Certo è che i muri di Tunisi, ora che hanno iniziato a parlare, difficilmente torneranno a tacere.