Letteratura. La poesia indaga l'abisso della Shoah
Il campo di concentramento di Birkenau (Ansa)
Una donna ha i capelli d’oro, l’altra ha capelli di cenere: le parole non possono raccontare quello che c’è in mezzo, non riescono a popolare il vuoto che separa Margarete, perduta all’amore per Faust, da Sulamith, la sposa del Cantico dei Cantici. Le parole possono però testimoniare, anche con il silenzio e con la reticenza, specialmente con il pudore. Sono versi famosissimi, questi di Paul Celan in Fuga di morte, e non stupisce ritrovarli nell’antologia di «voci poetiche sulla Shoah» allestita da Giovanni Tesio per Interlinea con il titolo Nell'abisso del lager (pagine 292, euro 18,00).
Un libro che in un certo senso esisteva già, ma in forma invisibile, disperso in altri libri e in altre antologie. Solo adesso viene finalmente in superficie grazie al lavoro attento e appassionato di Tesio, italianista e poeta a sua volta, oltre che narratore con il recente Gli zoccoli nell’erba pesante (Lindau). A parte l’inedito di Gianni D’Elia riprodotto in questa pagina, i testi di Nell’abisso del lager erano già disponibili per il lettore italiano, talvolta in sedi non immediatamente accessibili. Mancava però un inquadramento complessivo che permettesse di ricostruire la storia di questo che non è affatto un genere letterario: semmai un avvenimento che attraversa la letteratura del Novecento e la trasforma per sempre, travolgendo anche chi dall'esperienza storica dei campi nazisti non è stato toccato di persona. È la distinzione, fondamentale nella struttura del volume così come Tesio l’ha concepito, tra le «voci dal lager» e le «voci del lager» (il corsivo è mio), tra quelli che a Buchenwald o a Birkenau ci sono stati veramente e quelli che, pur senza esservi stati imprigionati, hanno ugualmente bevuto il «latte nero dell’alba», per citare ancora una volta Celan. Il punto di partenza è una pietra d’inciampo, e non potrebbe essere altrimenti.
Che dopo Auschwitz fare poesia andasse considerato un atto di barbarie era, com’è noto, la posizione di Theodor Adorno, alla quale Primo Levi contrapponeva la necessità di permettere che la poesia sopravvivesse all’“ora incerta” dello sterminio e dell’orrore. Lui stesso, Levi, era diventato scrittore (e poeta) proprio ad Auschwitz, rispondendo a un’urgenza tutt’altro che letteraria. «Se ne scrivono ancora» è l’incipit di una celebre poesia di Vittorio Sereni, I versi, nella quale si ammette che «No, non è più felice l’esercizio».
Ancora più perentorio è il francese Mathieu Bénézet, nato nel 1946, fuori dai limiti cronologici della Shoah. In Quel che dice Euridice dimostra come la convinzione che la poesia non sia più « possibile » si fonda su un equivoco, dato che «non esiste poesia possibile» (questa volta i corsivi sono dell’autore): «Non dimenticare sempre la poesia / conobbe / l’Inferno», ripete Euridice, che qui diventa figura di ogni vittima e di ogni sopravvissuto. Sono, questi che abbiamo citato, solo alcuni dei poeti presenti in Nell’abisso del lager. Tesio ne accoglie un’ottantina, non senza qualche rinuncia, considerato che l’ombra della Shoah si proietta a lungo e in contesti spesso imprevisti.
Non mancano, anche in ambito italiano, le occasioni per riconsiderare la consistenza di un canone che rimane mobile e contraddittorio, drammatico per definizione. Una sola, per esempio, è l’occorrenza del dialetto ( Donne di Ravensbrück del piemontese Carlo Regis), mentre colpisce il ricorso a soluzione auliche come «Deh taci» da parte di Bruno Lodi, autore di un autobiografico Voce del “Lager” andato in stampa già nel 1946. Da parte sua, Quinto Osano – i cui «ricordi e pensieri di un ex deportato» usciranno solo all’inizio degli anni Novanta – fa tesoro della lezione di Palazzeschi adoperando come ritornello un verso onomatopeico, «Tu tum, tu tum, tu tum, tu tum», che rimanda al rumore del treno diretto a Mauthausen.
Testimoni anche loro, in ogni caso, al pari di poeti più grandi e riconosciuti, da Giorgio Caproni a Pier Paolo Pasolini, da Franco Fortini ad Antonella Anedda, da Mariangela Gualtieri a Mario Luzi, fino all’indimenticabile «preghiera trafitta dall’elevazione» intonata da Elsa Morante: «Per il dolore delle corsie malate / e di tutte le mura carcerarie / e dei campi spinati, dei forzati e dei loro guardiani, / e dei forni e delle Siberie e dei mattatoi / e delle marce e delle solitudini e delle intossicazioni e dei suicidi / e i sussulti della concezione /e il sapore dolciastro del seme e delle morti, /per il corpo innumerevole del dolore /loro e mio...». Non meno vasto e accidentato è il paesaggio che si apre al di fuori dei confini italiani. Nell’abisso del lager dà spazio a Nelly Sachs e a Else Lasker-Schüler, a Jean Cayrol e a Yves Bonnefoy, a Hilde Domin e alla Sylvia Plath di Lady Lazarus, dalla «pelle / splendente come un paralume nazista», ma a fianco di questa costellazione già nota e si avvistano autori non ancora abbastanza apprezzati, come l’israeliano Dan Pagis, al quale si deve il fulminante Scritto a matita in un vagone piombato: «Qui in questo convoglio / Io sono Eva / Con Abele mio figlio / Se vedete il mio figlio maggiore / Caino figlio d’Adamo / Ditegli che io».
La poesia non racconta, appunto. La parola non può dire. Ma dopo Auschwitz è necessaria più che mai, come la «farfalla di Buchenwald» cantata da Zoka Velichova, visione che «si libra spensierata nell’abisso». «I miei ricordi sono solo cenere – aggiunge la poetessa – sull’ali iridescenti della polvere».
L'inedito
Figura del Macello
Come il diretto che risfiora il mare
Ripreme il passo la terra contro sé
Ma non può fare a meno d’inquadrare
Il tufo giallo che insegue chi non è
O chi se c’è di là non riappare
Dai carri piombati nel fosco rullare
Rugginoso a zaffate d’un treno bestiame
Ecco rifrana il Fosso Seiore e traspare
E sa di musi nebbiosi incollati alle rare
Sbarre ai cigolanti cerchi ai rinchiusi
Mugli in vapori d’un macellar secolare
Che già bastò puerili castelli a spazzare
E dunque non è vero che il bello è sempre
Nelle care cose che ci calmano
La cattedrale di foglie di un albero
O le squame di luce del mare largo
Se un lento treno merci a agosto esausto
Basta a evocare il più infame olocausto?
(1991) (2016)
Gianni D’Elia