Agorà

Il caso. Trump ridisegna il mito americano e ora potrebbe ripartire dall'architettura

Maurizio Cecchetti giovedì 13 febbraio 2020

L’edificio del Campidoglio a Washington nel classico stile neopalladiano

«Diffidare dell’influenza della famiglia reale, soprattutto se sostenuta da una stampa nazionale servile – un problema molto grave nel Regno Unito, dove chi appartiene alla famiglia reale, anche se non ha poteri legali, è un arbitro estremamente influente, e in ultima analisi determinante, del gusto architettonico»: la battuta si deve a James Stirling, detto Big Jim dagli amici per la sua mole fisica. Si riferiva, il grande architetto inglese, allo scompiglio che stava portando negli anni 80 il principe Carlo d’Inghilterra con la sua campagna antimodernista e a favore di un ritorno al revival delle forme vittoriane e classicheggianti, spalleggiato dall’architetto lussemburghese Léon Krier che, tra l’altro, aveva esercitato la professione nello studio di Stirling per alcuni anni uscendone nel 1975. Il principe aveva dichiarato guerra ai modernisti perché la loro architettura aveva portato «alla completa distruzione dell’edilizia residenziale georgiana e vittoriana nelle nostre città».

Charles & Léon paladini della tradizione dell’architettura come “stile democratico” contro il dogmatismo razionalista e funzionalista moderno. Si era forse nella classica situazione di crisi dove serve il coraggio di fare un passo indietro, ovvero, secondo uno slogan francese, reculer pour mieux sauter? Il postmoderno non fu forse questo indietreggiare per ritrovare la retta via? Affatto no. Quella fu un’epoca di revival ma tutti interni alle diatribe dell’unico movimento moderno, che dal suo ventre aveva partorito sia il monolite del Seagram Building di Mies van der Rohe, puro razionalismo fondato sul principio less is more, il meno è il più, sia l’espressionismo informale di Scharoun, che nella Philarmonia di Berlino, progettata con la lunga e faticosa collaborazione di von Karajan, anticipò di decenni il decostruzionismo rappresentato da Frank O. Gehry, Daniel Libeskind, Zaha Hadid, Rem Koolhaas e altri.

Una settimana fa Cathleen McGuigan sulla rivista “Architectural Records” ha lanciato l’allarme: Donald Trump ha in progetto una normativa per ridare all’architettura pubblica una immagine che rispetti l’indole nazionale americana richiamandosi ai principi dell’architettura antica. Riportare in voga colonne, timpani, capitelli e ogni altro elemento che pensavamo fosse definitivamente scomparso dal linguaggio architettonico (anche se il grattacielo già dell’AT&T e oggi diventato il Sony Building, costruito da Philip Johnson e John Burgee a New York nel 1984, termina proprio a forma di timpano e fu causa di grandi polemiche).

Brutalismo e decostruzionismo: per Trump sono una vera ossessione, perché contrari a ogni idea di tradizione. Qui bisogna fare un riferimento a Thomas Jefferson, uno dei padri della nazione, che oltre a dettare alcuni principi poi entrati nella Costituzione americana delineò anche lo stile della futura architettura riprendendo il linguaggio di Palladio (che applicò alla sua villa ispirata alla Rotonda e che chiamò Monticello in omaggio al colle vicentino dove sorgeva quella ideata dall’architetto veneto): stile che diventò “tradizione” in edifici come il Campidoglio o lo stesso Jefferson Memorial.

Ciò che per il terzo presidente degli Stati Uniti era lo stile stesso della democrazia, divenne per Carlo d’Inghilterra il revival vittoriano e pittoresco. Ed è singolare che proprio le due nazioni che più sono espressione storica della democrazia siano anche quelle dove regnanti o presidenti di oggi auspicano un intervento dall’alto per porre un argine alla libertà creativa degli architetti. Di democrazia parlò spesso anche il grande architetto americano Frank Lloyd Wright, da alcuni considerato (erroneamente) il precursore di Gehry & C., che nell’architettura organica, cioè quella dove lo spazio naturale e quello costruito vivono in reciproca osmosi e corrispondono alle esigenze dell’individuo (diceva: uno stile per ogni uomo), vedeva la compiuta rappresentazione di una idea politica.

Ma a che cosa mira oggi Trump? Vuole mutuare il prestigio e l’aura di cui Jefferson gode ancora nella memoria degli americani? È dunque una mossa elettoralististica rivolta a consolidare il consenso nelle aree più tradizionaliste dell’America? “Architectural Records” parla di un «ordine di servizio che ribolle silenzioso» e potrebbe segnare il futuro dell’architettura federale. Lo scrive dopo aver messo le mani sulla bozza di documento intitolato Rendere di nuovo belli gli edifici federali, dove l’inquilino della Casa Bianca incarica la Commissione delle Belle Arti di riscrivere i Principi stabiliti nel 1962 e auspica che «lo stile architettonico classico sia lo stile preferito e predefinito» dei futuri edifici pubblici. E il testo ritorna appunto a Jefferson quando ricorda che i padri fondatori abbracciarono i modelli dell’“Atene democratica” e della “Roma repubblicana” per i primi edifici della capitale.

Lo scopo dichiarato del misterioso documento è ridare all’architettura – nell’ambito del programma di eccellenza del design della General Service Administration (GSA) – la capacità di reintegrare «i nostri valori nazionali negli edifici federali» che troppo spesso sono stati «influenzati dal brutalismo e dal decostruttivismo». Alla base di questa presa di posizione, non ancora sottoscritta da Trump, ci sono idee come quella del defunto senatore Daniel Patrick Moynihan, secondo le quali l’architettura federale «doveva fornire una testimonianza visiva della dignità, dell’impresa, del vigore e della stabilità del governo americano».

Ma se un vero americano non dirà mai che vi debba essere uno stile ufficiale imposto dal governo agli architetti, pare invece che si voglia istituire una commissione del presidente per la riqualificazione dell’architettura federale: sette esperti nominati dalla Casa Bianca in carica per quattro anni. Sembra scandaloso, ma fino a due decenni fa anche nelle nostre città storiche regnava la Commissione di ornato che poteva bocciare i progetti poco rispettosi del contesto.

Tra i consulenti di Trump c’è Justin Shubow, presidente della National Civic Art Society, associazione simile per certi versi da noi a Italia Nostra. Nel suo sito web Shubow ha dichiarato guerra all’architettura moderna («in generale un fallimento») e auspica un ritorno alle radici premoderniste. Shubow è un acerrimo nemico di Gehry, e ha contrastato la realizzazione del suo progetto per l’Eisenhower Memorial a Washington. Tuttavia, se si guarda al passato di Trump – osserva la rivista americana –, egli nella sua attività immobiliare ha privilegiato il gusto modernista per vetro e acciaio, in modi più ostentati, assoldando negli anni 90 Philip Johnson per rinfrescare in stile modernista una facciata al Columbus Circus di New York, al punto che il grande critico Herbert Muschamp parlò di “stile internazionale” rivestito con un abito da festa in lamé dorato.

Andrà avanti nel suo intento Trump? Il rischio, come sostengono i suoi critici, è che le nuove disposizioni siano varate nel silenzio generale con conseguenze enormi sull’aspetto degli edifici pubblici nei prossimi anni. Oppure chissà, per reazione contraria, potrebbe spingere a uscire dalla spettacolarità da lunapark delle archistar ritrovando una idea di ordine architettonico senza cadere in stucchevoli evocazioni del passato. Staremo a vedere.