Politologia. Quando la politica imbraccia l'arma della nostalgia
Donald Trump durante la campagna elettore in Iowa, 6 gennaio 2024
Nel 1688 il giovane medico alsaziano Johannes Hofer dedicò la sua dissertazione dottorale a un disturbo che aveva avuto modo di riscontrare in alcuni soldati svizzeri che prestavano il servizio militare lontano dai luoghi d’origine. I casi esaminati da Hofer erano accomunati da malesseri analoghi, ma l’elemento più evidente era la condizione di profonda tristezza in cui versavano i militari. Secondo Hofer la causa del disagio non era altro che il fortissimo desiderio di tornare in patria. E per identificare quella malattia il medico coniò un neologismo, composto dalle due parole greche nóstos (ritorno) e algòs (dolore). Da allora la parola «nostalgia» è entrata nel nostro lessico, ma il suo significato ha anche conosciuto una notevole dilatazione. Perché per noi la nostalgia, oltre a riferirsi alla lontananza da un luogo cui ci si sente emotivamente legati, è soprattutto un sentimento che ha a che vedere con la dimensione temporale. La nostalgia ha dunque a che fare con la sensazione di lontananza da un passato (individuale o collettivo) irrimediabilmente trascorso, e come tale ancor più irraggiungibile di una patria lontana. Ed è proprio in questo senso che può diventare politicamente rilevante.
Il volume curato da Cristina Baldassini e Giovanni Belardelli, La politica della nostalgia. Il passato come sentimento e ideologia (Marsilio, pagine 160, euro 18,00) affronta proprio la dimensione politica di questo sentimento. Prendendo in esame alcuni casi significativi, che vanno dal pensiero controrivoluzionario ai casi contemporanei dell’America bianca e della Russia post-imperiale, il libro si chiede innanzitutto se la nostalgia sia effettivamente una categoria della politica. E la risposta non può che essere affermativa, dal momento che l’ondata populista degli anni Dieci ha segnato in qualche modo il trionfo proprio della politica della nostalgia. In modo diverso, la vittoria di Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca e l’esito del referendum britannico sulla Brexit mostrarono come una parte significativa dell’elettorato, mentre esprimeva il proprio voto, guardasse al presente con gli occhi rivolti al passato: più che coltivare la speranza che il futuro fosse gravido di emancipazione, in molti rimpiangevano nostalgicamente il benessere perduto. Tanto da dare il loro voto a coloro che promettevano di tornare di nuovo «grandi» come nel passato.
Questo genere di nostalgia politica è per molti versi l’altra faccia della «fine della Storia» in cui – nonostante le critiche indirizzate a Fukuyama – tutti abbiamo più o meno creduto dopo il 1989. Dopo la fine della Guerra fredda, l’Occidente si è infatti persuaso che il Progresso avesse raggiunto il punto culminante sotto il profilo delle istituzioni politiche ed economiche e che non fossero dunque più necessari mutamenti sostanziali. Ma se il futuro non viene più concepito in termini di progresso, è inevitabile che, dinanzi alle paure, si guardi al passato. E che, per un verso, come scrive Belardelli, ci si rivolga «alla nazione per una protezione reale di fronte alle difficoltà materiali», e, per un altro, alla nostalgia, «al ricordo indulgente di un passato magari immaginario, per avere una protezione emotiva». Così, come mostra Giovanni Borgognone, negli Stati Uniti si rimpiange un’età dell’oro precedente alla dissoluzione di una classe media mitizzata. E in Russia, come illustra Fabio Bettanin, si torna nostalgicamente al passato imperiale.
La politica della nostalgia non è patrimonio di una specifica parte politica, e d’altronde in Italia quasi ogni forza politica, in momenti specifici della sua storia, ha attinto a un passato quasi invariabilmente "re-inventato". Ed è sufficiente pensare ai molteplici richiami agli anni del boom cui hanno fatto ricorso la destra quanto la sinistra. Ma anche per la molteplicità di significati cui il passato può essere piegato, si può forse intendere la nostalgia politica come un sentimento non necessariamente deleterio, o destinato a trasformarsi per forza in una «retrotopia», un’utopia regressiva. Perché forse anche nel rimpianto nostalgico del passato, talvolta persino nel ricordo di uno «ieri» mitizzato, si possono trovare le risorse per dare un nuovo senso alla partecipazione alla vita collettiva.