Un’aura di leggenda e di squisita eleganza avvolge la storia dei Trovatori, l’antefatto essenziale e insieme l’incipit della poesia lirica occidentale. Pochi passi residui nei manuali, le allusioni dantesche (e su tutte quella relativa a un ineffabile Sordello, trovatore della seconda ondata e periferico perché mantovano), ma non molto altro rimane nella memoria scolastica se non alcune coordinate cronologiche e geografiche: poeti in provenzale (la cosiddetta 'lingua d’oc'), costoro furono attivi fra il XII e il XIII secolo tra la Catalogna, il Mezzogiorno francese e, di qua dalle Alpi, la Pianura padana; dei circa cinquecento di cui rimane almeno l’eco di un nome, si contano invece a poche decine coloro di cui restano frammenti, citazioni e, ancor meno, testi compiuti, canzoni peraltro spogliate della musica originale che le accompagnava. E, a quanto pare, la loro è soltanto la memoria di una memoria: i manoscritti che ne serbano traccia sono decisamente postumi ai poeti (fino al XIV secolo) e a ogni testo tramandato allegano, di mano estranea, unavida e una
razo, in parole povere un sunto biografico dell’autore e una sintesi occasionale del testo. Troppo per poter dire che non se ne sa nulla di storicamente fondato, ma troppo poco per dedurne un quadro di fisionomie per sempre accertate. Perciò non è un paradosso quello formulato da Maria Luisa Meneghetti (la grande filologa romanza già autrice di
Il pubblico dei trovatori, Einaudi 1992) nell’introdurre
I trovatori: una storia poetica (Mimesis, pagine 256, euro 24,00), denso e accattivante volume di Michel Zink, professore al Collège de France, che esce nell’ottima cura e versione di Federico Saviotti. Infatti, Meneghetti rileva come sia difficile «costruire una storia poetica in assenza quasi di storia» e, verrebbe da aggiungere, in presenza di una memoria o spesso di una vera e propria mitologia poetica che nei secoli sembra avere riassorbito le non molte tracce della storia medesima. Le notizie e gli anonimi rilievi che accompagnano le canzoni nei manoscritti vetusti sono come un labirinto di specchi (oggi si direbbe una trama intertestuale a somma zero) la cui unica certezza sopravvive tanto nella civiltà di un nuovo sentimento d’amore quanto nella fedeltà a una lingua comune e a uno stile che da Guglielmo IX d’Aquitania, per proverbio il pioniere, si differenzia fra
trobar leu, trobar clus e
trobar ric, dunque fra una poesia diretta e transitiva, una allusiva o ermetica, una infine di stile raffinato o sfarzoso. Annunciando di proporre un contributo non accademico (e però puntuali sono sempre le note come di prima mano gli apparati bibliografici) Zink sceglie di assecondare i rapporti intertestuali, dunque la dinamica a specchio, e scandisce il volume per concetti basilari (o luoghi topici) e fisionomie stilistiche irriducibili. È il caso per esempio, e davvero emblematico, di Jaufre Rudel il cui canzoniere annovera appena sei testi. Egli è il poeta dell’amore
de lonh, l’amore da lontano, e una
vida celeberrima riferisce di come si innamorasse per sentito dire della contessa di Tripoli, di come a lei dedicasse versi di nobili e semplici parole prima di imbarcarsi per raggiungerla oltremare, di come finalmente la incontrasse e la baciasse in punto di morte e però lasciandole un tale dolore da indurla presto a farsi monaca. In pagine di grande finezza analitica, muovendo dalla sola evidenza del testo, Zink passa al vaglio il centone grossolano della
vida sfuocandone gli stereotipi per valorizzare i tratti necessari alla esclusiva comprensione della poesia. La sua è una ermeneutica fondata sulla filologia, ma sfrondata di ogni feticismo documentario: «Jaufre Rudel, poeta sognatore, oscilla tra irrealtà e irrealtà e lo si può seguire solo entrando nel suo sogno. Ripete instancabilmente di sognare il proprio amore e del proprio amore, di rifugiarsi in questo sogno, che è per lui consolazione e tormento». Perché chiunque fosse la fantomatica contessa di Tripoli, forse Eleonora d’Aquitania, non era mai stata oltremare e non era nemmeno contessa: sulla scorta di un rilievo di Leo Spitzer, lo studioso francese rovescia il modello esplicativo della tradizione e dimostra come la
vida di Rudel non corrisponde alla sua biografia ma, al contrario, a una lettura precedente della sua stessa poesia. Che l’amore da lontano in realtà fosse un sogno d’amore e come tale si manifestasse, se l’aveva già intuito l’esegeta anonimo del tardo Medioevo poi l’avrebbero inteso i poeti moderni, da Heine del Romancero al nostro Giosue Carducci, che guardavano a Rudel come a un precursore; così, da
Rime e ritmi, in una poesia che un tempo si leggeva a scuola,
Jaufré Rudel: «Io vengo messaggio d’amore/ Io vengo messaggio di morte:/ Messaggio vengo io del signore/ Di Blaia, Giuaufredo Rudel./ Notizie di voi gli fur porte./ V’amò vi cantò non veduta:/ Ei viene e si muor. Vi saluta,/ Signora, il poeta fedel». Una simile dinamica Zink ritrova nel capitolo finale del volume e a proposito di Arnaut Daniel, l’anima virtuosistica della compagnia trobadorica e poeta dell’amore non più lontano ma vicino e impossibile. Stavolta è in gioco il testo di una
razodove si legge di Arnaut ladro di testi nel corso di una tenzone ma, ancora una volta, Zink coglie il senso dell’aneddoto riferendolo al tema, tipicamente arnaldiano, dell’autocoscienza poetica e dunque alla possibilità sempre imminente di un silenzio dell’ispirazione, di una stasi che sembri impotenza creativa, quando la impossibilità dell’amore e la mancanza di poesia sembrano davvero una cosa sola: «Ad amori facili corrispondono canzoni facili e abbondanti; ad amori difficili, canzoni rare e difficili, talvolta persino nessuna canzone». Non è un caso che Arnaut sia stato il prediletto di Ezra Pound, il quale identificava nei suoi versi la perfezione iconografica della poesia. Pound era un altro dei non pochi convinti che i Trovatori sono ancora tra noi.