Agorà

STORIA. Tripoli 1911, sogno di un'Italia acerba

Antonio Airò sabato 26 febbraio 2011
«Tripoli bel suol d’amore» canta, avvolta nel tricolore, la notissima artista Gea della Garisenda suscitando entusiasmi crescenti negli italiani che l’ascoltano mentre sulle piazze, in un clima di retorica diffusa, si moltiplicano manifestazioni, cortei, comizi, scontri verbali, che pretendono l’intervento militare in Libia per sottrarla al dominio dell’Impero ottomano. «La guerra è necessaria – scrive il quotidiano torinese Gazzetta del popolo – per aprire un uscio nel Mediterraneo che ci permetta di andare e venire a piacimento». C’è una voglia di riscatto dalla povertà che ancora segna la maggioranza della popolazione italiana, c’è un desiderio forte dell’Italia di uscire da una condizione di inferiorità rispetto alle grandi nazioni coloniali (Francia, Germania, Gran Bretagna) più sviluppate conquistando quella "quarta sponda" che in un certo senso le spetta e che del resto le viene riconosciuta quasi esplicitamente. «La grande proletaria si è mossa», sottolinea Giovanni Pascoli, mentre per il socialista "rivoluzionario" Arturo Labriola con la Libia «il Mezzogiorno non sarebbe stato più il lembo pendente e rilassato, anzi minacciante distacco dalla Penisola, ma il centro della medesima». Tante insomma le voci, quando nel marzo del 1911 Giolitti costituisce il suo quarto governo, che spingono affinché il nostro Paese conquisti finalmente il suo necessario "posto al sole" in un territorio che non era quel «cassone di sabbia», come era stato definito da non pochi degli avversari dell’avventura libica come Salvemini (il petrolio sarebbe stato scoperto in misura cospicua solo nel dopoguerra), ma che avrebbe potuto divenire occasione di crescita e di sviluppo per i nostri concittadini.È un vasto fronte quello che si batte per la guerra. Ne fanno parte i nazionalisti di Corradini, ampi settori del mondo cattolico, esponenti dell’economia e della finanza facenti capo al Banco di Roma, che dal 1906 era presente in Libia sostenendo l’espansione di compagnie di navigazione che toccavano Tripoli e Bengasi e favorendo non poche iniziative industriali, che ben presto erano entrate in rotta di collisione con i governanti turchi, ottenendone in cambio provvedimenti anche duri e discriminatori. Aggiungiamoci i socialisti riformisti di Bissolati e Bonomi e soprattutto buona parte del mondo intellettuale (da D’Annunzio e Marinetti) e della stampa. Gli stessi socialisti, pur contrari alla guerra, sono sostanzialmente divisi. Per Turati quella tripolina «è tutta una montatura che si sarebbe elevata né al dramma né alla tragedia», mentre il no intransigente con scioperi, proteste è espresso dai massimalisti Mussolini e Nenni. In questo scenario di tensioni, di mosse varie e contrapposte della diplomazia internazionale, la guerra si rivela quindi una scelta obbligata («fatalità storica», l’avrebbe definita Giolitti nelle sue memorie). Il blocco intorno alla Libia deciso dal nostro governo viene forzato da un piroscafo turco carico di armi. Il 26 settembre scatta l’ultimatum dell’Italia. Il governo ottomano si dichiara disponibile a larghe concessioni. Ma vengono respinte. È la guerra. Il 3 ottobre la nostra flotta bombarda Tripoli. Due giorni dopo dal convoglio (cinque corazzate, cinque incrociatori, dieci caccia e una ventina di torpediniere) scendono a terra 1600 soldati per una azione che doveva essere senza rischi e senza sangue eccessivo. Pochi giorni dopo da Napoli partiva per la Libia il grosso del corpo di spedizione (23 piroscafi ai quali se ne sarebbero aggiunti a Palermo altri 9) per un totale di 22.000 uomini. «La reputazione militare turca vive di una forza decrepita. Ciò che avviene qui è un indizio di sfacelo», scrive con ottimismo sul Corriere della sera Luigi Barzini. Non è l’unico e non è il solo. Il 5 novembre Vittorio Emanuele III proclama l’annessione della Libia al Regno d’Italia. Ma l’avventura a Tripoli di 100 anni fa non si rivela quella «festosa passeggiata» proclamata con enfasi dalla stampa italiana. Le popolazioni locali, ritenute ostili ai turchi occupanti, danno vita a varie forme di resistenza. Il 2 ottobre a Sciara Sciat un reggimento di bersaglieri è decimato da un gruppo di guerriglieri: muoiono 21 ufficiali e 482 soldati. Numerosi prigionieri italiani vengono massacrati. Il 1° novembre un nostro velivolo lancia quattro bombe su un accampamento nemico. È il primo bombardamento aereo della storia. La guerra all’interno della Libia prosegue per circa un anno. Vi porrà termine il 18 ottobre 1912 un trattato di pace che lascia non pochi strascichi e discussioni. Mentre i turchi lasciano la Libia, continua con alterne vicende la guerriglia, che finisce col limitare il controllo delle nostre truppe alle sole aree costiere. Ci vorranno 13 anni – e siamo nel 1933 – per domare con il governo fascista in modo consistente e con non poca fatica (che Gheddafi ci contesterà duramente) la rivolta. Un’occupazione difficile, contrassegnata dal prezioso lavoro di parecchi coloni, ma anche da fucilazioni, distruzioni, violenze atroci. Poi la guerra e il trattato di pace del 1947 con il quale l’Italia rinuncia a ogni diritto territoriale sulla "quarta sponda". Quindi l’espulsione forzata dei nostri coloni. Inizia il processo che avrebbe portato all’indipendenza della Libia con la nascita, il 24 ottobre 1951, del Regno unito con il re Idris. Il 1 settembre 1969 la rivolta dei colonnelli con Gheddafi al potere. Una storia che vive in questi giorni i suoi più tragici momenti.