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L'intervista. Ravasi: «Eco, tra i codici dell'Ambrosiana la sua passione per la Bibbia»

Edoardo Castagna domenica 21 febbraio 2016
«Ho conosciuto Umberto Eco quando sono venuto a Milano, alla Biblioteca Ambrosiana, che fu il nostro primo “ponte” data la sua nota bibliofilia. E poi siamo diventati amici, sempre in maniera riservata». Il cardinale Gianfranco Ravasi, oggi presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, ricorda quelle visite dello scrittore allo scrigno librario milanese, vera tesoro per chi, come Umberto Eco, a sua volta possedeva una raccolta – «davvero impressionante», puntualizza Ravasi – di testi antichi. LA SCOMPARSA DI UMBERTO ECOAttorno a quali elementi ruotava la vostra amicizia? «Il primo era naturalmente quello legato alla Bibbia. Eco aveva una vera passione per gli studi biblici, anche se diceva di non averli mai potuti praticare; è noto come si chiedesse perché i ragazzi delle scuole dovessero sapere tutto degli dèi omerici e quasi nulla di Mosè, tutto della Divina Commedia e non del Cantico dei Cantici e degli altri testi biblici che ne sono il palinsesto. Essendo a conoscenza della mia pratica esegetica era sempre pronto a dialogare con me; tra i testi che più lo affascinavano spiccava per esempio il Qohelet». E poi? «Il secondo nodo era legato alla letteratura medievale. Tutti conosciamo Il nome della rosa – romanzo nato prima delle nostre frequentazioni all’Ambrosiana, iniziate verso il 1990 –, però la sua passione erano soprattutto due autori. Il primo è ovvio, Tommaso d’Aquino: fece la tesi di laurea sulla sua estetica. Ricordo la sua emozione quando gli mostrai un testo autografo del santo, scritto con una grafia pressoché incomprensibile, oscura, agli antipodi della sua lucidità logica. È invece forse meno noto il suo interesse per Raimondo Lullo, del quale l’Ambrosiana conserva una buona raccolta di codici. Ma la si può capire bene, perché Lullo è una figura capace di stabilire ponti di comunicazione anche con l’islam: conosceva l’arabo, aveva interesse per il dialogo... E poi il filosofo catalano era curioso, passava dalla disputa alla logica, dalla polemica alla cavalleria; fino al Libro del gentile e dei tre savi, quel dialogo tra un pagano e tre sapienti che si interrogava sulle religioni monoteistiche. Insomma, proprio quel grande spettro di curiosità che aveva lo stesso Eco». Infine c’era il comune amore per il libro... «Era il terzo elemento della nostra amicizia. Negli incontri ai quali lo invitavo, quasi lo sfidavo a mostrare quanto ne sapesse di codici che erano di norma dominio degli specialisti. La Biblioteca Ambrosiana lo affascinava tanto che veniva sempre quando era chiusa, per poter girare tra le sale in libertà».Il fatto che lei fosse un ecclesiastico non costituì mai un ostacolo?«Al contrario, era un legame ulteriore. A parte la sua esperienza religiosa giovanile – una matrice che non aveva mai voluto dimenticare nonostante il suo spirito profondamente laico –, in lui c’era il desiderio di vedere come si potesse vivere l’esperienza di fede pur senza rinunciare a tutte le curiositas culturali. Sempre con grande rispetto per i temi teologici e di spiritualità: ricordo quella volta quando, ritornando insieme in macchina dall’Università di Bologna dove avevamo discusso del Cantico dei Cantici in un incontro voluto dal rettore Ivano Dionigi, riassaporava, gustava, riprendeva il tema dell’amore, così come era letto dal Cantico e dalla tradizione mistica».Se dovesse sintetizzare la lezione di Umberto Eco, quale parola sceglierebbe?«Senza dubbio “curiosità”. Pur avendo una propria specializzazione e un proprio rigore, restava convinto della complessità del reale e voleva sempre guardare al di là delle proprie frontiere. D’altra parte la curiositas è, per sua sua natura etimologica, anche cura, passione, preoccupazione per qualcosa: non semplicemente volteggiare sulla realtà come una farfalla, ma anche ricerca di coinvolgimento. Come scriveva Rousseau nell’Emilio, si è curiosi solo nella misura in cui si è istruiti». Un rigore che oggi non sembra andar per la maggiore...«Nella cultura contemporanea in molti imperversa il gusto di parlare solo per far vedere che si sanno tante cose... Occorre evitare i due estremi, l’eccesso di specializzazione e l’approssimazione, ma il rischio è sempre in agguato. Ma mi lasci concludere con un ricordo personale...».Prego.«Un pomeriggio lo portai dal cardinal Martini, assieme a Beniamino Placido e Aldo Grasso, per consigliare l’arcivescovo nella stesura della sua famosa lettera pastorale Il lembo del mantello: per un incontro tra Chiesa e mass media. Eco, vero affabulatore, parlò e discusse a lungo, il pomeriggio si protrasse fino alla cena, e alla fine il suo ultimo consiglio fu: “Mi dispiace ma io non sono capace di dare suggerimenti per scrivere una lettera pastorale. Piuttosto, preferirei scriverla io...”».>> IL FILOSOFO INQUIETO di Alessandro Zaccuri