Giovanni Boine muore il 16 maggio 1917 a Porto Maurizio che, separata da Oneglia solo dal torrente Impero, costituirà la futura Imperia. Otto anni prima che Montale, negli
Ossi di seppia, restituisse alla Liguria del primo Novecento la sua configurazione: schiocchi di merli e frusci di serpi, tra i pruni e gli sterpi; roventi muri d’orto, crepe e calvi picchi; le file delle formiche rosse che si rompono. La domanda, lo so, è una specie di scherzo metafisico: con quale orma Boine, il compagno d’università di Clemente Rebora, calcò quel paesaggio? Montale, il lettore di Svevo, giuocava con un’idea della vita da vivere ai minimi percentuali, mentre Boine, a quella vita, era condannato da una salute cagionevole: la colite cronica, la nevrastenia, e la tisi, già aggressiva nel 1908, che lo porterà, nemmeno trentenne, alla tomba. Condizione che gli faceva guardare Pietro Mario, il fratello più giovane, il pugile «dalle braccia forti e dal viso abbronzato», come il campione della salute: non fosse stato incenerito dal tifo nel fiore dei suoi diciannove anni.Ecco, se vivere è, nel suo pieno, amare, per Boine l’amare fu sempre un peccare: «le cose del mondo san di peccato come sa di salso l’acqua del mare». E ciò, per l’ineludibile compromissione con la vita, ambigua e impura, renitente agli imperativi del pensiero. Come dicono, del resto, i suoi molti e inquieti amori: complicati, opachi, quando non guasti. L’amore casto, ma onirico e febbrile, per la suor Maria delle carmelitane di Porto Maurizio, che gli valse
Il peccato (1914): il romanzo d’un mistico contemporaneo rigoroso, ma perennemente tentato dalla vita, nel suo che d’irredimibile. L’amore contrastato, ma mai ripudiato, per Maria Gorlero, la vedova d’un vetturino e madre d’una bambina a Boine carissima. Le relazioni poco borghesi (lui che, pure, alla normalità anelava) con la moglie dell’amico Giovanni Amendola, Eva Kühn, che finirà in manicomio, e con la scandalosa Sibilla Aleramo, che ne diede poi notizia a suo modo in un romanzo, Il frustino (1932). Ma anche tante piccole storie (fu un uomo misteriosamente, o fin troppo spiegabilmente, irresistibile) di dongiovannismo involontario e renitente, con qualche coda di tumulto e concitazione. Epperò, l’autore del
Peccato, fu anche lo scrittore perentorio e lucido ma anche avventuroso e sperimentale, delle 86 recensioni di
Plausi e botte, apparso postumo nel 1918. Secondo un percorso, che, visto ora in chiave di metafisica dei luoghi, si potrebbe rileggere come un passaggio in Liguria. C’era voluto quel troppo d’azzurro, d’insostenibile azzurro, a schiacciare tutto il paesaggio tra cielo e mare, perché il mondo sensibile s’accampasse, montalianamente, come l’inganno consueto e definitivo del vivere. Ma, a contrappunto, era insorto in Boine anche un molto ligure sentimento della concretezza e dell’operosità, di laboriosa consapevolezza, una feroce fede nel particolare, insomma un prepotente senso della realtà, proprio dentro l’amore indomabile per la vita impura, peccaminosa. Un ligure sentimento delle cose, dicevo: e il culto della precisione, al modo, se si vuole, dell’antica arte marinara di nodi e cime. Un sentimento che coagulò nel cruciale rapporto col direttore e proprietario della
Riviera ligure, Mario Novaro, poeta filosofo e imprenditore oleario, che per altro affidò alla sua rivista la pubblicità dell’Olio Sasso. Così Boine, su di lui, all’amico Casati il 19 dicembre 1910: «Sono entusiasta di questa gente che dà cinque o sei ore al commercio e poi legge Hobbes e ride di Croce. (…) Le cose, le cose da vicino. Il mondo dai libri non si conosce».Ho detto di passaggio in Liguria: meglio parlare di ritorno. Nella varia bibliografia di questo singolare intellettuale non sono mai mancati, del resto, interventi di ligurissima disposizione. Ne cito due:
La crisi degli olivi in Liguria (1911) e
Decentramento regionale (1912), un contributo, quest’ultimo, di sorprendente intelligenza autonomistica, tanto più se paragonata al livello concettuale miserrimo che la questione ha ormai raggiunto nell’odierno dibattito politico. Devoto alla vita impura, l’ex modernista Boine arriva ad avere una coscienza di sé e del suo stare al mondo insolita per quei figli del secolo, se si esclude il solo Borgese. Sentite cosa scrive nell’autorecensione di
Plausi e botte, parlando del suo romanzo d’esordio,
Il peccato: «L’intenzione generale era di rappresentare quel lirico intrecciarsi di molto pensiero sulla scarsezza di pochi fatti: quel continuo sconfinare della poca cronistoria esteriore nella contraddittoria, nella dolorosa, angosciata complessità del pensare che è la vita di molti e la mia; intenzione di esprimere una complessità, una compresenza di cose diverse nella brevità dell’attimo, dentro un’apparente povertà di vita. Ma son tentativi: restano tentativi. Passiam oltre». Ecco: prosopopea del pensiero astratto; scarsezza di pochi fatti; povertà di vita. Passiam oltre, scrive Boine: in Liguria, a Imperia, si può.