Film. Quelli che volevano essere come Totti
"E chissà quanti ne hai visti e quanti ne vedrai di giocatori | che non hanno vinto mai | ed hanno appeso le scarpe a qualche tipo di muro | e adesso ridono dentro a un bar ...”. Dentro questi versi nostalgici de “La leva calcistica del ’68” di Francesco De Gregori, c’è la storia di tanti ragazzi che si sono illusi di poter sfondare con il calcio e che, invece, ora si ritrovano a fare i conti con la delusione, per via di un sogno vissuto a metà e ben presto svanito nel nulla. Un docufilm, Zero a Zero, scritto e diretto da Paolo Geremei, racconta tutto questo. Ieri sera al Piccolo Apollo di Roma l’ultima delle proiezioni del film che nell’ultimo anno è rimbalzato come un pallone da un festival all’altro (vincendo cinque premi) della provincia italiana, in attesa di una distribuzione vera, quanto doverosa. Una pellicola di grande impatto emotivo, ma soprattutto estremamente educativa che andrebbe mostrata a partire dai ragazzi delle scuole calcio. Una visione possibilmente congiunta con i loro genitori, troppo spesso contagiati da una Febbre a 90’ che li fa sperare, per l’ambizione talora delirante, di crescere in casa il futuro Francesco Totti. Il film di Geremei ha per protagonisti tre ex talenti: Daniele, Marco e Andrea, tutti classe 1977, che con Totti appunto hanno giocato sul serio e condiviso con il “Pupone” nazionale vittorie e speranze nelle giovanili della Roma. Ma legge spietata del circo professionistico del pallone, vuole che solo “uno su mezzo milione ce la fa”. E quell’uno, era proprio il loro ex compagno, capitan Totti. La storia di cuoio insegna che c’è chi con i propri piedi ha trovato l’oro, e a chi invece è rimasto solo il rimpianto della polvere di stelle scivolata in fretta dalle mani.
L’incipit di questo film parte proprio da un pallone che scivola dai guanti da portiere di quella promessa sicura che è stato Andrea Giulii Capponi. «Un giorno, passo davanti a una drogheria qui sotto casa, zona Vaticano, e con sorpresa vedo che il commesso è proprio Andrea – racconta Geremei –. Giulii Capponi nel quartiere Portuense era un piccolo mito. Il bello, l’idolo delle ragazzine, uno invidiato dai suoi coetanei perché tutti si aspettavano che da un momento all’altro avrebbe fatto il debutto in Serie A e sarebbe diventato ricco e famoso. E invece…».
Invece, triplice fischio anticipato. E lo stop non arriva per una papera tra i pali, ma per una “misteriosa” decisione presa da Carletto Mazzone, nel ritiro della Roma, a Lavarone, estate 1994. Con la prima squadra era entrato nel tempio del Bernabeu - amichevole con il Real Madrid -, poi la “punizione” e il ritorno nella Primavera. Da quel momento nulla sarebbe stato più come prima.
«Andrea ad inizio campionato non venne convocato come terzo portiere, al suo posto scelsero Di Magno, un altro di cui si sono perse le tracce», spiega Geremei. Un anno ancora di Primavera, poi Giulii Capponi scende nel cono buio del dilettantismo. «Sono finito a Ladispoli e in altre piccole società del litorale romano e a 25 anni ho smesso», dice l’Andrea di oggi che lavora tutto il giorno in quel negozio e l’unica porta che difende ancora è quella della rappresentativa del Vaticano. In più allena i giovani portieri, ma ironia della sorte per un ex promessa romanista, quelli della Lazio.
Solo la Roma nel cuore e nella testa di Marco Caterini quando nella Nazionale Under 15 divenne il portiere titolare, e il suo vice era un certo Gigi Buffon. «Premesso che Gigi è il più grande portiere del mondo, però la mia esperienza mi insegna che nel calcio non sempre è sufficiente essere bravi per sfondare. A volte basta un incidente, come è capitato a me, per cancellare in un attimo anni interi di sacrifici», dice Marco che nell’estate dei suoi 18 anni si ritrovò a piedi, parcheggiato in una delle tante squadre satellite della Roma. «Mi davano anche 300mila lire al mese, ma dopo essere stato ad un passo dalla Serie A, mi ritrovavo a ricominciare dalla serie D».
Lì, sui campetti polverosi della suburbia, avverte la solitudine poco poetica del portiere che, in pieno recupero, dalla porta del Fiumicino lanciò la sua ultima “vana difesa”. «Giochiamo un’amichevole contro la Roma e paro il rigore a Paulo Sergio… Per un attimo ho avuto la bella sensazione di non aver mai lasciato Trigoria. E invece ero lì, in quel campetto periferico, dove ormai scendevo in campo solo per passione. La mia professione è diventata quella di geometra e l’unica medicina per non farmi troppo male con i ricordi del passato sono i bambini della scuola calcio ai quali insegno prima di tutto che questo sport è un gioco». Un gioco stupendo, ma che fa male quando hai toccato il cielo con un dito e, poi, sei finito con la faccia a terra, senza nessuno disposto ad aiutarti a rialzare. È ciò che ha provato Daniele Rossi. Chi ha un “De” in più nel cognome, oggi è il “capitan Futuro” nella Roma, Daniele De Rossi. Lui invece Rossi Daniele, nella distinta dell’arbitro figurava come il numero 10 prima che arrivasse la stella luminosa di Totti Francesco. «Con Totti siamo stati anche compagni di scuola, all’Istituto tecnico. Eravamo diventati il “tandem” degli Allievi nazionali: decine di gol realizzati in coppia, titoli italiani e tante coppe alzate assieme. A un certo punto gli ho ceduto il n.10 e io sono diventato l’11, ma andava bene lo stesso, perché Francesco si capiva già allora che sarebbe diventato quel campione immenso che è».
Tante aspettative, i tecnici riponevano anche in Daniele che va in prestito al Cecina e ancora spera nel grande rientro in casa giallorossa, ma in una amichevole con il Palermo, a Norcia, mise il piede in una buca, e lì sono finiti tutti i suoi sogni. «È stata dura accettare di smettere e proiettarsi in una realtà diversa da quella del calciatore professionista che credevo sarebbe stata la mia giusta realizzazione. La depressione all’inizio mi divorava, poi ho provato a dare un senso a questa seconda vita. Oggi cosa faccio? Il cameriere in una pizzeria a Testaccio. Gioco a calciotto con Marco Caterini nella squadra del Pizza Bum e in estate alleno i ragazzini nei Milan Junior Camp». Non era proprio quello che desiderava Daniele, e neppure Andrea e Marco, ma è andata così. «Il titolo del mio film – conclude Geremei – Zero a Zero, indica proprio questo: la loro “partita” non è andata come doveva andare, ma alla fine non ci sono né vincitori né vinti in queste tre storie, che sono simili a tante altre che viviamo tutti i giorni in altri campi spesso distanti da quelli di calcio. Però i destini paralleli di Andrea, Marco e Daniele, per chi ha visto il film restano esemplari per il coraggio nell’aver saputo affrontare e superare la sofferenza. E le loro testimonianze potranno essere utili a tanti ragazzi che in questo momento, sbagliando, del calcio ne fanno una ragione di vita o di morte».