Forse molti non sanno che l’eroico Enrico Toti, il più celebre mutilato d’Italia che abbia preso parte alla Grande Guerra, prima che un soldato, volontarissimo, fu un grande sportivo. Nel 1908, il ragazzo, romano del rione Monti, lavorava da fuochista quando cadde sotto le ruote di una macchina ferroviaria che gli sfracellò la gamba sinistra. Aveva 26 anni quando gli venne amputato l’arto e fu messo in pensione anticipata. Ma Toti non sventolò bandiera bianca, anzi. Imbacuccato nei suoi maglioni pesanti, salì in sella alla leggendaria bici monopedale. Fiaschetta del liquore per borraccia e nel portafogli l’immaginetta di santa Rita da Cascia affinché – specie a lui, ciclista della squadra cattolica della Tiberis – lo proteggesse nel perseguimento della sua pazza idea: il raid ciclistico fino al remoto Nord Europa. È il giugno del 1911, dopo essere passato per la Svezia, Toti tagliò il traguardo di Mosca. Quasi diecimila chilometri percorsi, ma la sua corsa non finì mica nella Russia degli zar. Due anni dopo, il “sor Righetto” ci riprovò studiando un personalissimo giro d’Africa. Il secondo raid, però, venne interrotto a Wadi Halfa, ma solo per il mancato pass all’inaccessibile deserto del Sudan impostogli dai coloniali inglesi che lo dirottarono al Cairo. Questi blitz furono gli allenamenti di Toti sul “cavallo di ferro”, prima di unirsi al 3° Battaglione dei bersaglieri ciclisti. Con il piumetto sull’elmo, combatté da “non arruolato” (ebbe lo speciale placet dal Duca d’Aosta) dalla nostra entrata in guerra (maggio 1915), fino alla morte che lo colse la mattina del 6 agosto 1916 sull’altopiano carsico, durante la battaglia per la presa di Gorizia. «Toti, insignito della medaglia d’oro al valore – scrive Marco Impiglia –, possiamo considerarlo il primo atleta paralimpico italiano», sottolinea Angela Teja, curatrice (tra gli altri con Romano Sairo, Livio Toschi e Fabrizio Orsini) del prezioso
Lo sport alla Grande Guerra (Quaderni della Siss – Società italiana di storia dello sport). La medaglia d’oro al valore fu appuntata anche al petto di Nazario Sauro. Il leader dell’irredentismo era stato una giovane promessa della Libertas, la società canottieri della natìa Capodistria. Quelle esperienze di vogatore gli tornarono utili nel ruolo di tenente di vascello della Regia Marina che servì fino a quel 10 agosto del 1916, quando, dopo essere stato catturato dall’esercito austro-ungarico, a Pola venne condannato a morte con l’accusa di alto tradimento. Il suo motto, «Sempre ovunque e prima di tutto italiani», diventò il grido d’arme dei canottieri della Libertas che ogni 10 agosto lo ricordano con un’uscita in mare e il lancio di una corona d’alloro. Omaggio alla memoria dell’uomo e dello sportivo che non tradì mai la patria. Lo stesso fece il triestino Giovanni Raicevich, figlio di dalmata. Scelse l’esercito italiano, il nipote dell’arcivescovo di Zara che lo avrebbe introdotto volentieri alla carriera ecclesiastica, ma dovette benedire lo stesso le gesta del più grande lottatore di greco-romana del secolo scorso. Dotato di una potenza tale da sollevare il mondo, grazie a un fisico scolpito, celebrato dalla stampa quanto quello di Primo Carnera (172 cm per 110 kg), con le sue vittorie schiaccianti Raicevich conquistò Parigi e in Argentina il cuore della Bella Otero. Pluricampione mondiale volò in America (si cimentò nel “catch”), ma prima, anche da irredentista, partecipò, su espresso ordine dei generali Cadorna e Badoglio, alle operazioni per la liberazione di Trieste dove, una volta scampato alla ritirata di Caporetto, entrerà sventolando il tricolore, il 3 novembre 1918.Lo stesso giorno, Nedo Nadi partecipò come cavalleggero alla liberazione di Trento. Una delle tante imprese compiute dal grande schermidore e fondatore, assieme al fratello Aldo, della prestigiosa scuola livornese. Nadi, già campione olimpico a Stoccolma 1912 (a soli 18 anni), terminata la guerra affrontò i Giochi di Anversa con lo spirito dell’invincibile stabilendo il record insuperato: 5 ori olimpici conquistati in tutte e tre le armi (fioretto, sciabola e spada). Una ferita alla gamba riportata negli scontri del conflitto pose precocemente fine alla corsa di una stella del nascente movimento dell’atletica leggera, il marciatore Fernando Altimani. Era stato bronzo olimpico a Stoccolma, ripiegò mestamente come tipografo alla
Gazzetta dello Sport. Quella di Altimani è una delle storie di sport e trincea raccontate da Dario Ricci e Daniele Nardi ne
La migliore gioventù (Infinito, pagine 204, euro 12,50). Tanti di quella gioventù furono tra i 650mila morti (600mila dispersi e oltre un milione di feriti gravi, molti dei quali ebbero danni permanenti) che l’esercito italiano lasciò sul campo di battaglia. Tra atleti, dirigenti e giornalisti, si conta che i “caduti dello sport” siano stati intorno ai 500. Il calcio diede il maggiore contributo, anche in termini di vittime, 258. Al triplice fischio finale della Grande Guerra il risultato più impietoso fu lo sterminio dei ragazzi dell’Internazionale: morirono 26 giocatori del club meneghino, compreso il capitano – anche della Nazionale – Virgilio Fossati. Dodici furono i soldati che avevano indossato la casacca del Milan che, con mezza Udinese e altrettanti componenti della squadra dell’Hellas Verona, non fecero più ritorno a casa. Molti si salvarono anche grazie al calcio, specie chi prese parte ai tornei promossi nelle “città di legno”. Nei campi di concentramento di Sigmundherberger, Celle e Mauthausen, si organizzarono veri e propri campionati, il cui obiettivo dichiarato dei nostri prigionieri era «mantenere saldi e forti i muscoli per impedire l’attecchimento della tanto diffusa tubercolosi».