Letteratura. Tonino Guerra, in due volumi tutti i suoi scritti
È un avvenimento l’uscita di L’infanzia del mondo (Opere 1946-2012) di Tonino Guerra (1920-2012): finalmente viene pubblicato nei Classici Bompiani l’insieme dei suoi scritti, con la competente cura di Luca Cesari, e la dettagliata cronologia di Rita Giannini (pagine CCXXXV+2.890, euro 40,00). Due corposi tomi uniscono poesie in dialetto e in italiano: liriche, aforistiche, narrative, poemi; prosimetri; narrazioni: racconti, romanzi, divagazioni, viaggi, fiabe; la sceneggiatura di Amarcord scritta con Fellini; testi teatrali; massime e proverbi. Essi permettono di vedere l’unità e varietà dell’autore nelle fasi della sua vita, confrontando opere diventate introvabili che riserveranno più di una sorpresa. Si veda, in particolare, dei due primi romanzi caldeggiati da Calvino e ospitati da Vittorini nei 'Gettoni' Einaudi, la ricchezza di quel classico romanzo di formazione che è Dopo i leoni (1956) cui sarebbero seguite scelte più sperimentali, in sintonia con i tempi e le collaborazioni cinematografiche.
Tonino Guerra è stato uno dei poeti italiani più intensi e amati, ma di quelli che più ingenerano equivoci sulla sua fisionomia, a partire dal dialetto con cui viene identificato, dall’avere coltivato arti diverse, inclusi cinema e narrativa, dall’immagine pubblica degli ultimi anni dopo l’82, quando, lasciata Roma dove si era stabilito nel 1953 per lavorare come sceneggiatore nel cinema, era tornato a Santarcangelo e poi a Pennabilli, e lì aveva ripreso a dipingere; come un patriarca si occupava del paesaggio, della natura offesa, delle campagne, dei mestieri perduti, di artigianato, inventava forme di oggetti, porte, stufe, lanterne, fontane, faceva orti, dava avvisi ai politici e ai sindaci. Spiazzava, nel mondo dello specialismo anche per letterati e poeti dimentichi che Poietés è «colui che fa». Invece era un compatto, solido poliedro rinascimentale (o contadino) dalle molte facce su cui posavano pensieri, immagini, suoni, che la poesia illuminava dall’interno, come una concava stella irradiante. Aveva iniziato con i disegni e gli acquarelli da ragazzo, prima della poesia, prima di essere deportato in Germania nell’agosto ’44, anche se disse «in me sono nate prima le parole». Quanto al dialetto, nel campo di concentramento le prime poesie erano nate in vernacolo perché conteneva l’heimat comune agli altri deportati romagnoli. Il 'dolore del ritorno' che è la nostalgia col suo carico di morte lo teneva in vita. Il mondo anteriore di antichità immemorabile che il dialetto recava con la sua grazia sarebbe diventato una sorgente a cui Guerra attinse con una libertà e varietà come nessun altro, forse anche per la sua lunga vita e la ricchezza di contaminazioni: collaborando a più di cento film del grande cinema di De Sica, Rosi, Petri, Antonioni, Fellini, i fratelli Taviani, Montaldo, Tarkovskij, Anghelopoulos, rigenerandosi in un Oriente fisico e mentale dopo il 1975, per il matrimonio con Lora Kreindlina: in Russia, Georgia, Armenia trovava lo stupore perduto dall’Occidente, l’ammirazione per i poeti, il fascino di storie romanzesche inesauribili.
Ma era il genio naturale (di cui era consapevole), la sua intelligenza critica a farlo emergere (una sicurezza evidente fin dalla tesi di laurea del 1946 sulla poesia dialettale romagnola, dove fa piazza pulita di folclore convenzionale, descrittivismo). In tutta la sua poesia, dalle forme fulminee o nell’onda di ritmi popolari di I scarabócc (1946, che con La sciuptèda 1950, E’ lunèri 1954, e gli Éultum vers formeranno I bu 1972 esaltati da Contini), ai poemi inaugurati da Il miele (1981) fino all’Ultimo verso del 2012, in Guerra la sintassi del vernacolo coincide con la forma del proprio intelletto, e questo è capace come rarissimamente accade di corrispondere con l’oggetto, di estrarne il seme di una storia, tra lingua e immagine. Questa storia è sempre simbolica: unica e infinita nelle sue possibilità di variazione. Guerra non è mai poeta dell’occhio, ma dell’immagine profonda, del simbolo che si svolge in mito, come rivela il desiderio della vecchiaia, di tornare all’Odissea, a un’epica del ritorno, comune a tutti i popoli. Questa forza generativa della poesia in dialetto di Guerra meravigliò subito Augusto Campana che gli diede avallo filologico, insieme a Carlo Bo e Pasolini, che fu il migliore lettore di Guerra mentre usciva in friulano con Poesie a Casarsa (1942), La meglio gioventù (1954), e scriveva La poesia dialettale del Novecento (1952), La poesia popolare italiana (1955). Ma altri si avvidero che valeva alla pari in italiano, come riporta Fellini per Flaiano. Guerra non poteva essere giudicato solo poeta dialettale: non eccelleva nel dialetto soltanto. Calvino osservò per tutti il carattere di una scrittura che era il suo modo di esistere: «Tutto, per Tonino Guerra, si può trasformare in racconto e in poesia: a voce, per iscritto o nelle sequenze filmiche, in prosa o in versi, in italiano o in dialetto romagnolo, c’è sempre un racconto dietro ogni sua poesia; sempre una poesia in ogni suo racconto». Si tratta dell’esigenza arcaica dell’aedo, che anche quando si proietta nel presente costruisce un filo narrativo di origini, non importa in quale forma, anzi ha bisogno della libertà più assoluta, di sregolatezza perfino, di anarchia, per tenere fermo il filo di mito e di fiaba che lo collega con la propria infanzia, e, come scrive in Una foglia contro i fulmini (2006), è la ricerca dell’«infanzia del mondo »: un principio che determina il titolo di questa raccolta delle opere. E l’aedo scrive come respira, fedele ai silenzi, ai vuoti, ai profumi.
Certo questo filo lo univa anche geograficamente al Pascoli del 'Fanciullino' che è anche senes e sapiente. Ma ne raddoppiava la reazione alla morte, così potente nella Romagna ctonia, perché le due guerre mondiali avevano aggiunto una realtà di catastrofe apocalittica, la certezza che la civiltà del mondo contadino era veramente finita. Al ragazzo che iniziava la carriera nel Cinquanta non poteva togliere vitalità, era un costruttore. Ma contiamo quante volte ricorre in lui la parola macerie, con morte, cenere, polvere e consimili. Constatiamo come, attraverso le crisi degli anni sia spinto sempre più alla tenerezza per i vecchi, l’umanità più derelitta, la natura più fragile. Ha compassione per i luoghi abbandonati che conservano, annebbiati, i primi bagliori di luce del mondo, il mistero di un sacro in ciò che si dissolve, come in un Vangelo dell’ultima umiltà. Nel libro di svolta Il miele (1981), contemporaneo all’amicizia e al lavoro con Tarkovskij che da Tempo di viaggio sfocia in Nostalghia, e inaugura il tempo scorrente del poema, Guerra scelse a simbolo della sua poesia la natura liquida del miele prodotta dalle api-muse. Nel Dizionario fantastico e negli Avvisi poetici rielaborò il discorso di Domenico prima del suicidio in Nostalghia: «Bisogna che nel tuo cervello pratico e attento soprattutto ai bisogni materiali, bisogna che entri il ronzio degli insetti. Devi pregare che su questa piazza arrivino delle cicogne o mille ali di farfalle, devi riempire gli occhi di tutti noi di cose che siano l’inizio di un grande sogno, devi gridare che costruiremo le piramidi. Non importa se poi non le costruiremo. Quello che conta è alimentare il desiderio, tirare la nostra anima da tutti i lati come se fosse un lenzuolo dilatabile all’infinito...».
Lo slancio fluente si raccoglie in quella sorta di preparazione al distacco che è Una foglia contro i fulmini. Guerra è triste perché gli manca la cattiveria: «Vorrei / leccare tutto il dolce che gronda / dalle mie parole e parlare di gente / che ha dato calci nella / pancia delle donne incinte ... E io insisto che bisogna ascoltare la sinfonia / della pioggia. Purtroppo non so fare meglio, e le corde della tenerezza / mi tengono lontano dall’orrenda verità». Poi, nel lento congedo, quando le foglie dell’erba luisa sono scomparse dalla chiesuola distrutta, ecco che dalla porta chiusa della stanza il loro profumo riempie la casa, sono sul suo pavimento, meravigliosa e inquietante apparizione. «Ho capito che anche le mie risposte erano / diventate domande». Come nella Ginestra («Di dolcissimo odor mandi un profumo, / Che il deserto consola») le parole della poesia dove il miele diventa ambra, riescono solo a confortare: «Ecco questo profumo erano parole. Forse volevano demolire i miei dubbi. Per il momento dico che li hanno profumati, ed è già molto, è molto confortante per me».