Agorà

Il caso. Il Califfato dei Tombaroli, le razzie dell'Is

ROBERTO I. ZANINI martedì 14 luglio 2015
Le immagini televisive dei talebani che fanno saltare i Buddha di Bamiyan, in Afghanistan, o quelle dei miliziani dell’Is che razziano e distruggono il museo di Mosul sono ben chiare nella nostra mente. Da anni il patrimonio artistico di buona parte dell’Oriente e del Medio Oriente è a rischio fondamentalismo. Dopo le cosiddette Primavere arabe il rischio si è accentuato. Quello che pochi sanno, però, è che «l’aspetto quantitativamente più grave riguarda le razzie a scopi commerciali. Reperti d’arte antica che vengono contrabbandati in tutto il mondo grazie a una rete collaudata di trafficanti, storici dell’arte conniventi, mercanti, siti telematici e collezionisti privati. Quando nel giro non entrano anche case d’asta e musei. Per non dire del vasto e incontrollato mercato dell’arte nell’Estremo Oriente». Su questi argomenti Luca Nannipieri, studioso e saggista, oltre che direttore del Centro studi umanistici dell’abbazia di San Savino (Pisa), sta conducendo un’inchiesta, che presto verrà tradotta in libro. Quali sono i Paesi più interessati dalle razzie? «Siria, Egitto, Iraq e Libia. Da qui provengono i manufatti che alimentano la gran parte del contrabbando internazionale di opere d’arte. Commercio che secondo l’agenzia americana Us International trade commission si è impennato dell’86% negli ultimi cinque anni per un giro d’affari di un miliardo e mezzo di dollari. L’Unesco, però, porta la cifra a 2,2 miliardi». Va bene per Siria, Iraq e Libia dove da anni regna l’incertezza, ma l’Egitto, seppure con alti e bassi, è da decenni un Paese con un governo stabile e una politica archeologica. «Ma è enorme e con una quantità di siti dispersi sul territorio. La differenza rispetto agli altri casi è che quel che accade all’interno dei suoi confini è più facilmente monitorabile. E i dati parlano chiaro. L’Antiquities Coalition, ovvero l’associazione di storici dell’arte antica e archeologi americani, valuta in cinque milioni di dollari l’introito ufficiale del commercio dall’Egitto nell’ultimo anno. Il Museo naizonale Malawi di Minya, uno dei maggiori musei egizi, è stato saccheggiato nel 2013 e sono stati rubati o razziati 1.050 su 1.089 manufatti contenuti (fonti del ministero delle Antichità egizie). Ma basta leggere i dossier degli archeologici impegnati in scavi in Egitto per rilevare il frequente sciacallaggio dei siti archeologici. Su The Art Newspaper  Rosario Pintaudi dell’Istituto papirologico Vitelli di Firenze, assieme ad altri archeologi come Jay Heidel dell’Università di Chicago, ha scritto di razzie quotidiane. Alcune università impegnate in missioni di scavo, e riviste come Popular Archeology o Current World Archeology, hanno indicato i nomi di alcuni siti interessati: dall’antica città di Antinopoli (el-Sheikh ’Abadah) ad Arsinoe (Medinet Madi), da Eracleopoli (Beni Suef) ad Abu Rawash e a Saqqara». Una buona documentazione ci sarà anche  per la Siria. «L’Istituto delle Nazioni Unite per la Formazione e per la ricerca ha dichiarato che quasi trecento siti siriani sono stati razziati, alcuni distrutti (24), molti gravemente danneggiati (104), molti parzialmente distrutti (84). In Libia, invece, la situazione è totalmente fuori controllo e non si hanno riferimenti precisi». Dall’Iraq giungono notizie più dettagliate? «Il museo di Baghdad è stato saccheggiato nella seconda guerra del Golfo, il museo di Mosul nel 2014. Gran parte delle opere in essi contenute non erano catalogate. E una tavoletta sumera con scrittura cuneiforme ha grande valore sul mercato ed è difficilmente tracciabile. Solo qualche mese fa il ministro iracheno del Turismo e delle antichità ha dichiarato: “Reperti iracheni rubati sono messi in vendita in aste internazionali, nonostante tutti gli appelli e le petizioni fatte dall’Iraq e anche dopo che è diventato chiaro che la vendita di questi reperti è un’importante fonte di finanziamento per i gruppi terroristici. Ripetiamo il nostro appello a tutti i Paesi perché pongano fine ai commerci di antichità irachene, nel rispetto delle risoluzioni internazionali, in particolare la risoluzione 2199 del Consiglio di sicurezza dell’Onu”». Non ci sono controlli? «Non esiste una polizia internazionale che si occupa di questi commerci. Ed è un ambito in cui ci si muove al confine fra legalità e illegalità. In Italia le leggi sono severe ed esistono controlli. In altri Paesi come Stati Uniti e Gran Bretagna le maglie sono più larghe perché il commercio di antichità è da sempre consentito. Solo da qualche anno le case d’asta si sono fatte più caute. Alcuni musei come il Getty Museum di Los Angeles e il Metropolitan di New York hanno per molto tempo acquistato opere trafugate da siti archeologici. Basti pensare a quelle che hanno dovuto restituire all’Italia come la Venere di Morgantina, pagata diciotto milioni, il Cratere di Eufronio proveniente da Cerveteri (un milione), il Trapezophoros di Ascoli Satriano (cinque milioni e mezzo). E poi le vetrine online: basta entrare e navigare per trovare reperti di grande interesse». Come funziona il circuito internazionale? «A razziare spesso è gente che vive nei pressi dei siti e che lo fa per necessità. Poi i reperti vengono trasferiti per mare e per terra. La via d’acqua parte da Beirut e raggiunge i porti del Nord Europa, in particolare Anversa, Amburgo e Rotterdam, che mobilitano venti milioni di container l’anno e i controlli a campione riguardano solo il 2-3%. I nostri porti, più piccoli, sono evitati perché i controlli salgono al 10%. La via di terra attraversa Turchia e Balcani ed è facilitata dal fatto che gli accordi internazionali prevedono controlli sui Tir solo alla partenza e alla destinazione, non alle dogane intermedie». Una volta in Europa come diventano commerciabili? «Grazie a perizie di critici e storici dell’arte che assegnano una carta d’identità ai manufatti con provenienze generiche come “area mesopotamica” o da inverificabili collezioni private orientali. Ci sono anche collezionisti che acquistano e reimmettono sul mercato dopo anni, anche sezionando le opere per guadagnare di più o per renderle irriconoscibili. Senza considerare il mercato dell’Estremo Oriente, raggiunto attraverso Paesi incontrollabili come Afghanistan e Pakistan». E l’Is ha parte attiva in questo traffico? «Lo gestisce dove ha il controllo del territorio. Si finanzia attraverso di esso. Razzia i siti, tiene i pezzi commerciabili, sega i bassorilievi, distrugge il resto».