Incontrammo padre Zef Pllumi a Tirana nel 1992. Questo indomito francescano, dallo sguardo risoluto ma mite, aveva scontato 22 anni di carcere nei duri lager di Enver Hoxha. Scarcerato da poco, aveva resuscitato la parrocchia di Sant’Antonio in uno dei rioni più poveri della capitale albanese. E i parrocchiani gli regalarono un saio. Non lo indossava da decenni. Resuscitare è il verbo adatto perché la chiesa, come tutti gli altri templi, era stata chiusa per trent’anni. Gli chiedemmo, attenti a dosare le parole e con pudore, se avesse sofferto. Padre Zef chiuse gli occhi, poi sorrise e avvicinò a sé il nipotino tenendogli la mano sul capo come per proteggerlo dal passato che andava evocando: «Lo stesso lavoro forzato – cominciò a dire – era una tortura. Lavoravamo immersi nell’acqua con le sanguisughe che si attaccavano a tutto il corpo. Chi non lavorava veniva bastonato sul posto e poi appeso per ore a una specie di croce. Restava penzoloni, tenuto soltanto con i polsi, finché non sveniva». Poi ci accorgemmo che il bambino, Zef come lui, sgranava gli occhi spaventato, come se avesse visto l’orco delle fiabe, e padre Zef ammutolì, chiudendo la botola su quell’abisso d’orrore.Questo dolore l’ha tenuto chiuso dentro di sé per anni, per guardare soltanto al futuro. Poi padre Zef, che è morto in un ospedale di Roma nel 2007 (a Tirana fu decretato il lutto nazionale), decise di raccontare il lungo inverno che aveva vissuto e pubblicò in tre volumi un memoriale che nel titolo indica una missione:
Rrno vetëm për me tregue «Vivi per testimoniare». Come tanti intellettuali che patirono la sua stessa sorte, padre Zef, pur scusandosi per non essere un vero scrittore, sentì il dovere di raccontare ai posteri, affinché l’orrore non potesse più ripetersi in Albania. Solo oggi viene pubblicata in Italia la prima parte del memoriale con il titolo
«Il sangue di Abele. Vivi per testimoniare» (Diana Edizioni, pagine 300, euro 13,00), del quale pubblichiamo a lato un breve estratto. È un libro denso per il dolore, che affiora in ogni riga, di una Chiesa martire che ha vissuto un lungo Getsemani, raccolta nella preghiera e nel timore.Padre Zef comincia la narrazione che è novizio nel convento di Scutari dove i francescani sono presenti dal 1635. Li seguiranno poi i gesuiti e, insieme, segneranno la cultura albanese. Sono loro, al congresso di Monastir nel 1908 a stabilire le regole dell’alfabeto albanese che diventa latino. La prima firma del documento finale è di Gjergj Fishta, il francescano ricordato come l’Omero dei Balcani. Quando iniziano le persecuzioni contro le Chiese e la fede in generale padre Zef è tra le prime vittime del regime, piccolo fraticello imberbe che però affronta con piglio eroico il suo persecutore. È testimone del cosiddetto "Processo di Scutari" del ’46 che si concluse con sette condanne a morte. Tra i fucilati, il giovane Marc Çuni accusato, per aver diffuso dei ciclostilati, di far parte del fantomatico gruppo eversivo, "Unione Albanese". Il giovane Çuni, con i francescani Gjon Shllaku, Giovanni Fausti, Daniel Dajani, e poi Gjelosh Lulashi, Fran Mirakaj e Qerim Sadiku, insieme ad altri sacerdoti e religiosi che soffrirono e morirono nelle carceri del regime saranno proclamati Servi di Dio il 10 novembre del 2002 nella cattedrale di Scutari.Nel 1946 padre Zef è testimone oculare di questa prima sofferenze. Non tocca ancora a lui. Sa degli interrogatori e ha il racconto delle violenze che i suoi confratelli pativano: «Con gli interrogatori – ricorda – non si cercava la verità, ma il modo di attuare il disegno del partito che necessitava di un pretesto legale per annientare la Chiesa Cattolica». Il 13 gennaio 1948 si trova lui stesso sul banco degli imputati con le catene ai polsi. Gli consegnano l’atto d’accusa. Folle. Frate Zef, con altri dieci francescani, è ritenuto, tra l’altro, «colpevole della notte di San Bartolomeo in Francia», di «aver impedito il progresso della scienza perseguitando gli scienziati e bruciandoli sul rogo, tra questi Giordano Bruno e Galileo Galilei» che, per verità, si spense a casa sua.A inchiodarli è poi l’accusa di aver «predicato dottrine religiose non conformi con la laicità del popolo». Padre Zef sarà condannato a tre anni. Li passerà in lager infernali e il suo corpo sarà martoriato. Il francescano scrive tutto. Racconta gli strazi e le mortificazioni, le torture e le privazioni. Mai rassegnato e senza odi e rancori. Senza censure, spalanca la botola e mostra l’abisso, anche perché suo nipote Zef è abbastanza grande per sapere cosa hanno fatto gli orchi. Non nelle fiabe, ma nella storia recente dell’Albania.