Nel 2000, a 93 anni e dopo una vita vissuta con rara intensità [...], Germaine Tillion dichiara, in un breve scritto, che è diventato «essenziale e nuovo, e quindi inventivo» il ruolo primario che il cristianesimo («beninteso, il cristianesimo letterale dei Vangeli che è stato in ogni tempo molto poco praticato» perché «molto poco praticabile ») «attribuisce alla compassione», che «i Vangeli pongono al di sopra anche della giustizia ». Poco praticabile, difficilmente praticabile questo sentimento, dai singoli e ancor meno dalle istituzioni, esso ha bensì promosso «atti e sentimenti venerati... dalle due altre religioni monoteiste» e dallo stesso mondo laico. In piccola parte, dobbiamo aggiungere, meno ottimisti di lei. Ma a ben vedere troviamo in questo e solo in questo la possibilità di continuare, nonostante tutto, a praticare la speranza, per il dovere che i più inquieti e i più risoluti sentono di perseverare nelle azioni rivolte al prossimo, all’attenuazione delle sue disgrazie, di un prossimo che, lo sappiamo bene, siamo anche noi stessi. Cercando, anche disperatamente, anche paradossalmente, di mettere in pratica la speranza e di renderla possibile e attiva nella società e nella storia. E perfino nella politica. Questa «nuova dimensione della compassione » è la chiave di volta del pensiero di Germaine Tillion. È quanto questa donna ostinata e lucidissima ha appreso dal confronto con la storia del suo tempo, tra i più intensi di tutti perché non ha mai rinunciato a tenere vicini, anzi uniti, il pensiero e lo studio con l’intervento nelle difficoltà (nelle tragedie) della storia, mai dimenticando che la storia è fatta da persone concrete, con le quali ci si scontra o ci si incontra, con e per le quali o contro le quali ci si muove. [...] Etnografa, allieva o vicina ai grandi nomi della moderna etnografia e antropologia (quelli del
Musée de l’Homme parigino), ha studiato in gioventù l’Algeria scoprendo la persistenza dei costumi e l’intreccio tra economia e società, tra credenze e pratiche, e ponendosi istintivamente, e verrebbe da dire cristianamente, dalla parte dei deboli è però chiara e profonda nell’analisi di un assetto sociale, di come esso si è formato e si regge. Con un’attenzione particolare alla condizione della donna, oltre ogni visione interessata o mitica, scavando sempre nella concretezza del reale, nelle strutture economiche di una società, ma considerando le sovrastrutture non meno reali, non meno importanti dell’economia. Militante, e segnata da una tradizione che possiamo dire socialista, ha reagito all’invasione tedesca della Francia in modo combattivo, e lo ha scontato venendo spedita nel lager di Ravensbrück [...] dove sua madre è morta e dove ha contribuito alle azioni di resistenza continuando ad analizzare la realtà, anche la più atroce, con le lenti della sua scienza, per capire spiegare combattere anche quel nuovo tipo di dominio e di massacro, il funzionamento di quella macchina e la sua ideologia. [...] Sopravvissuta, non si è soltanto dedicata a tener viva la memoria e la conoscenza di quel passato recente; [...] altri doveri incombevano, ai quali Germaine non si è affatto sottratta, seguendo Rousset nella denuncia dei crimini commessi dallo stalinismo nell’Urss e nei Paesi satelliti, e facendosi in tal modo altri nemici nella cultura di sinistra del suo tempo, quella comunista. E si è trovata vicina a Camus – su cui ha scritto pagine assai belle, di apprezzamento e condivisione – nel-l’affrontare con una lucidità che le veniva dalla conoscenza diretta della situazione la questione algerina. [...] Sullo sfondo: un campo di battaglia che è stato suo da sempre, le donne. In una visione lontana dal primo femminismo del dopoguerra e da quello degli anni Settanta e successivi (non credo che Germaine Tillion abbia mai avuto grandi rapporti con la Beauvoir, ma sarebbe anche questo un terreno da indagare) e vicina alla conoscenza antropologica e storica della condizione femminile in Algeria, e principalmente negli Aurès. Qui mi viene da accostare la Tillion a certe figure femminili del dopoguerra italiano che ho avuto modo di frequentare e dalle quali ho avuto modo di imparare, in particolare quelle che, venendo dalla Resistenza, sono state vicine alla politica, ma facendo politica a modo loro, in un modo ben diverso da quello degli uomini, attive nelle istituzioni restandone bensì ai margini o scegliendo di agire dentro il cosiddetto sociale in una chiave comunitaria e fortemente pedagogica. Penso alle donne che hanno avuto a cuore 'la causa della verità' però correndo ai ripari, non fermandosi allo studio, alla riflessione, alla denuncia, e invece agendo, inventando, creando, collegando, aprendo. Educando, con le parole e con i fatti. E con l’esempio. Penso alle Ada Gobetti, alle Margherita Zoebeli e tante altre, o alle Angela Zucconi in rapporto alla quale mi ha sbalordito [...] la vicinanza nella invenzione dei 'centri sociali' come luogo, appunto, in cui potessero accedere «coloro che erano in gra- do di farlo, passo dopo passo, a un’istruzione più elevata» ma anche (per la Zucconi) di educazione comunitaria, di ricerca di una parziale autonomia nello sviluppo anche economico delle comunità, anche se il primo scopo è stato quello fondamentale per Germaine Tillion, dettato anzitutto dalle sue preoccupazioni per la “clochardizzazione” dei contadini poveri nelle città in cui andavano migrando, impreparati a economie che esigevano scelte professionali precise. Forse, però, l’aspetto che può sembrarci oggi più attuale delle persuasioni della Tillion, è la sua analisi di come nasce il razzismo, l’avversione tra culture e l’intolleranza, anche violenta, che lo caratterizzano o che ne conseguono. [...] Non esiste vera conoscenza senza compassione. O meglio: senza la pratica della compassione, perché la parola stessa spinge all’intervento. È questa la conclusione cui arriva Lacouture ascoltando Tillion, è questo che egli coglie come cardine ed essenza dell’esempio che Germaine Tillion ci ha lasciato, e che è oggi, credo, di un’attualità altrettanto e forse più bruciante che in passato. Questa donna ha attraversato la storia del Novecento soffrendola e avversandola, ma anche cercando di indirizzarla, di crearle delle sponde, degli anticorpi, e fidando non nella vittoria del bene, ma nel dovere del bene di resistere al male, di contrastarlo. Le nostre vite di privilegiati dalla storia (parlo dell’Italia, dei nostri settant’anni di pace e delle prove ben più deboli che abbiamo dovuto affrontare in confronto a quelle di altri negli stessi decenni e a quelle che altri devono tuttora affrontare) ci hanno chiesto molto meno di quanto non sia accaduto altrove, o siamo noi che abbiamo voluto dare molto di meno. Non si annunciano all’orizzonte tempi migliori, e l’esempio di vite responsabili e attive come quella vissuta da Germaine Tillion può esserci di riferimento e di stimolo, ricordandoci l’antico motto a cui anch’ella ha tenuto fede e che ha sostenuto la coscienza e l’azione dei migliori in ogni tempo e Paese, «fa’ quel che devi, accada quel che può». Includendo nel devi la conoscenza senza pregiudizio, la testimonianza, l’azione.