Agorà

Intervista a Wuer Kaixi uno dei leader della protesta. Tienanmen e la libertà dimezzata

Ilara Maria Sala venerdì 29 maggio 2009
Wuer Kaixi oggi ha 41 anni: vent’anni fa, insieme agli studenti Wang Dan e Chai Ling, era uno dei tre leader più im­portanti delle proteste che coinvol­sero dapprima Pechino e poi il Pae­se intero e vennero schiacciate nel sangue dall’esercito cinese nel giu­gno 1989. Wuer è di etnia uigura (un popolo di otto milioni di persone o­riginario del vasto Xinjiang, la parte di Asia Centrale sotto dominio cine­se), considerato come una 'mino­ranza etnica' nella propria terra. Gli uiguri seguono una forma sufi del­l’islam, hanno un aspetto occiden­tale e parlano una lingua stretta­mente collegata al turco. In uiguro, Wuer Kaixi si chiama infatti Urkesh Devlet. Nelle settimane successive al massacro, scappò dappri­ma in Francia, dove ha co-fon­dato la Federa­zione per una Cina democra­tica, e poi negli Stati Uniti, do­ve ha prosegui­to gli studi. Lo abbiamo intervistato a Taiwan, dove vive oggi in esilio con la moglie e i due figli, e dove la­vora nei media. Pensando oggi a quello che è suc­cesso vent’anni fa, proteste di piaz­za che coinvolsero milioni di perso­ne in tutta la Cina ma che finirono in modo così tragico, che tipo di pensieri ti vengono? «Credo che sia stato un momento cruciale nella storia della Cina: un momento molto toccante, un risve­glio. Ha avuto un enorme impatto su quello che è successo da allora in poi in Cina. Non dobbiamo dimen­ticare che fra le richieste degli stu­denti c’erano la libertà di espressio­ne e la libertà di assemblea, nonché il riconoscimento del diritto alla proprietà privata. Se guardiamo alla Cina oggi, le nostre richieste politi­che non siano state accolte, mentre quelle di natura economica sì. Un’altra richiesta importante che veniva da noi, studenti di Tian’an­men, era quella che il Partito si riti­rasse dalla vita privata delle perso­ne. Oggi questo è finito: le persone possono scegliere il lavoro che vo­gliono fare, dove vogliono abitare, con chi vogliono sposarsi…». Non si può, però, dire che abbiate ottenuto tutto quanto chiedevate… «No, ma i passi avanti registrati so­no importanti e hanno le loro radici nel nostro movimento. Subito dopo il massacro, dal 1989 al 1992, il go­verno cinese aveva trasformato il Paese in uno Stato di polizia. Ha de­ciso di fare un pessimo accordo con la popolazione: in cambio della li­bertà politica, che non concediamo, siamo disposti a darvi libertà eco­nomica. Lo chiamo un pessimo ac­cordo, perché la verità è che en­trambi i tipi di libertà appartengono di diritto al popolo cinese. Ugual­mente, il popolo cinese lo ha accet­tato; da allora non ci sono stati altre proteste politiche significative». Come sei uscito dalla Cina? «Sono stato uno degli studenti tirati fuori dal Paese tramite quella che è stata definita l’operazione "Uccello Giallo", che ha beneficiato di una rete fra nostri sostenitori all’interno, uomini d’affari di Hong Kong e pure alcuni contrabbandieri abituati a far entrare ed uscire dalla Cina pro­dotti illegali. Non saprò mai se era vero, o solo una voce, ma in tanti mi hanno detto che l’ordine era di arre­stare Chai Ling e Wang Dan, ma di "uccidere lo uiguro". Arrivato a Hong Kong, sono partito per l’Euro­pa ». Vorresti tornare in Cina? «Certo che sì! Con altri dissidenti in esilio del movimento del 1989, ab­biamo lanciato un appello al gover­no, chiedendo che ci faccia tornare a casa, e contiamo di rilanciarlo di nuovo quest’anno, con forza. In passato ci sono state persone che mi hanno avvicinato proponendo­mi di scendere a patti per poter tor­nare in Cina, ma a condizioni inac­cettabili: vogliono che io denunci pubblicamente il movimento del 1989, e che dia informazioni su al­cune persone legate a quei tempi. Questo non posso farlo. Non posso tradire la fiducia altrui». Cosa pensi dei giovani cinesi di og­gi, così nazionalisti, pronti a mani­festare per attaccare l’Occidente ma non per criticare il governo? «I leader attuali, il presidente Hu Jintao e il primo ministro Wen Jia­bao, i più noiosi leader che la Cina abbia mai avuto, hanno solo eredi­tato il loro potere, da Jiang Zemin: non sono né combattenti rivoluzio­nari, né sono stati eletti. Nemmeno possono at­tribuirsi il successo e­conomico nazionale. L’unica cosa che rimane loro per am­mantarsi di legittimità è quella di sventolare la bandiera del nazionali­smo. È dav­vero un pec­cato che questo abbia così tanto successo fra alcuni giovani, i quali sembrano credere davvero che ci sia un nemico esterno al Paese e se la prendono con negozi francesi co­me Carrefour o fast food americani come KFC. Credo che l’irrazionalità sia spesso una malattia della so­cietà, anche nelle democrazie: la differenza è che una democrazia ha in sé i meccanismi per correggersi, una volta che gli elettori subiscono le conseguenze di scelte sbagliate. Un governo totalitario non ha mo­do di correggersi. Ma ho l’impres­sione che ci siano più persone che criticano questo nazionalismo viru­lento, e mi sembra un segnale posi­tivo ». Molte persone, sia in Cina che fuo­ri, oggi criticano il vostro movi­mento, dicendo che eravate irre­sponsabili e ingenui, che avete por­tato il caos per le strade di Pechino, e che la democrazia sarebbe un er­rore per la Cina. «Ascolto con umiltà chi ci dice che abbiamo fatto errori e ci incoraggia a riflettere. Ma molti critici non so­no in buona fede, vogliono gettarci fango addosso. Che alcuni in Cina siano spaventati della democrazia è comprensibile perché hanno cono­sciuto la devastazione della Rivolu­zione Culturale e temono il caos. Lo sbaglio che fanno è quello di crede­re che la democrazia sfoci fatalmen­te nel caos… Le democrazie posso­no essere rumorose, ma non caoti­che. Guardate Taiwan!».