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Teatro. Tiago Rodrigues: la guerra vista dalla Croce Rossa

Angela Calvini venerdì 6 maggio 2022

La pièce di Tiago Rodrigues "Dans la mesure de l'impossible" sarà al Piccolo Teatro di Milano

Figlio di una dottoressa e di un giornalista, il regista e drammaturgo portoghese Tiago Rodrigues si è sempre domandato come il teatro potesse raccontare la società reale. Per questo ha deciso di mettere in scena le vere storie degli operatori umanitari impegnati nelle tante crisi umanitarie sparse per il mondo in Dans la mesure de l’impossible, nuovo testo scritto e diretto dal neo direttore del Festival di Avignone nonché artista associato del Piccolo Teatro. La pièce verrà presentata dal 25 al 27 maggio in anteprima al grande festival internazionale organizzato dal Piccolo Teatro di Milano dal titolo Presente indicativo: per Giorgio Strehler (paesaggi teatrali) in scena dal 4 al 31 maggio per indagare il mondo di oggi. Tiago Rodrigues il 7 e 8 maggio è anche atteso al Teatro Storchi di Modena con Antonio e Cleopatra dopo avervi appena portato il controverso Catarina e a beleza de matar fascistas.

Tiago Rodrigues, da dove arriva l’idea di raccontare gli operatori umanitari a teatro?

Ho cominciato a creare un progetto dalle storie vissute dagli operatori umanitari del Comitato internazionale della Croce Rossa e Medici senza frontiere. Ho voluto la loro collaborazione per avere informazioni ed avere accesso agli operatori umanitari. Ho parlato con molti infermieri e medici, ma anche con gli operatori logistici, che fanno un lavoro molto complesso in cui devono garantire la sicurezza del passaggio.

Come è stato il rapporto con i suoi protagonisti?

Mi hanno lasciato la libertà totale, mi hanno dato grande fiducia e mi hanno permesso di effettuare la ricerca che volevamo e anche di pensare a come tradurla in teatro. Non volevo fare teatro documentario, ma al contrario volevo raccontare le storie e creare una pièce artistica che ci facesse partecipare alla vita di queste trenta persone che sono coinvolte nel progetto. Mi interessava vedere se il loro sguardo è cambiato attraverso la sofferenza e il dolore. Loro guardano queste tragedie in maniera diversa rispetto a noi che le vediamo alla televisione. Il punto di partenza del lavoro è stato focalizzarsi su che cosa cambia nella visione del mondo e della vita in queste persone che vivono in due mondi: il mondo dell’ Impossibile, fatto di guerre e violenza, e il mondo del Possibile, ovvero una società democratica.

Qual è stato allora il risultato?

Ho intervistato queste persone insieme agli attori e ai musicisti e abbiamo capito che le esperienze sono tutte molto diverse. Il mondo dei membri delle organizzazioni umanitarie è composto di valori comuni e uni- versali, come quelli di aiutare tutti, di non guardare chi si aiuta, di riconosce la dignità umana di qualunque persona anche quando ci sono divisioni profonde. Un tratto comune a tutti è che la prossimità con la sofferenza fa sì che si dia molta più attenzione alla complessità dei conflitti e delle situazioni. C’è un rifiuto della visione semplicistica dei conflitti, bianco o nero, capiscono che c’è difficoltà nel prendere una posizione pro o contro.

Come è riuscito a tradurre tutto questo in scena? Lo spettacolo parla molto di come costoro parlano di loro stessi, del loro lavoro e dell’enorme complessità della realtà che porta alla guerra. Ci hanno chiesto di non scrivere una storia di buoni e cattivi. Così una scelta nello spettacolo è stata quella di non identificare le persone, né di identificare le regioni. Al posto di dire Afghanistan o Ruanda o Colomba si dice l’Impossibile per togliere il pregiudizio che sia una realtà lontana da noi. Il mondo si divide in due, il Possibile o l’Impossibile. Nel 1944 l’Europa era nell’Impossibile, e poi è entrata nel Possibile, ma può tornare all’Impossibile. La guerra in Ucraina lo sta dimostrando: ora l’Impossibile si è avvicinato a due ore di aereo da noi.

Come è strutturato lo spettacolo?

In scena ci sono quattro attori e un batterista. Anche loro hanno partecipato alle interviste e la pièce comincia proprio con gli attori che, nei panni degli operatori, stanno rilasciando un’intervista sulle loro esperienze. È interessante il loro pudore, raccontano le storie anche con commozione, ma con molta delicatezza, sono molto cauti nel non impressionare e non fare un fuoco d’artificio emozionale, lasciando a noi il compito di riflettere.

Ci può fare qualche esempio?

Mi ha colpito il caso di una pediatra urgentista che aveva in cura cinque bambini che avevano bisogno di sangue, ma c’era solo una sacca. Chi di loro fare sopravvivere? Il cuore le diceva di salvare il più piccolo di due anni, ma in quella regione dell’Africa le aspettative di vita sono bassissime per chi ha meno di cinque anni. Quindi la ragione l’ha portata a scegliere quello di otto anni che aveva più chance di sopravvivere. Colpisce la capacità di essere professionisti davanti a scelte che si fanno da soli. Lei ci dona la misura dell’impotenza degli operatori umanitari: loro sanno che non possono salvare il mondo, ma solo guadagnare tempo.

In qualche modo lei unisce in questo lavoro le sue origini, la madre medico e il padre giornalista?

Mi son reso conto che facevo il lavoro di mio padre sul lavoro di mia madre. Le persone che aiutano e che hanno scelto di prendersi cura degli altri, trovo che facciano il più bel mestiere del mondo. Sia i medici sia quelli che si prendono cura degli anziani e dei bambini. Occorre proteggere la professione più importante nella nostra società. C’era già ammirazione per il mestiere di mia madre, ora le rendo un po’ omaggio.

La pandemia ce ne ha fatto rendere ancora più conto.

Abbiamo visto fargli fare l’impossibile, e ci siamo avvicinati tutti come specie umana sull’essenziale della vita: si vive insieme per aiutare quelli che hanno bisogno, e la pandemia ce lo ha fatto capire. Gli operatori umanitari lo fanno viaggiando verso un altro continente per sollevare persone che non conoscono, che hanno un’altra cultura. L’altro, così differente, è umano come me.

Lei debutta al Piccolo anche come artista associato ed è il nuovo direttore del Festival di Avignone.

Al Piccolo c’è un dialogo che è cominciato quando il direttore Claudio Longhi seguiva i miei lavori a Ert, ed ora mi ha associato al Piccolo anche con degli altri progetti. Mi insedierò ad Avignone a settembre per il festival del luglio 2023 ma sto già lavorando con nuove idee e alternative.

La sua pièce Catarina e la bellezza di ammazzare fascisti ha suscitato polemiche.

Su Catarina a Roma la destra ha polemizzato per il titolo provocatorio senza conoscere il contenuto. È una pièce molto politica, ma non difende la violenza, anzi pone una domanda sulla violenza. La violenza ha posto in democrazia? Come difendere la democrazia contro le forze autoritarie o fasciste? In un mondo tanto diviso dove la violenza pare un’opzione, occorre chiedersi come si può proteggere la democrazia.