Alpinismo. Tamara Lunger e la tragica spedizione sul K2: il dramma e la fiducia in Dio
Tamara Lunger
«Pur nella sua brutalità, anche questa spedizione mi ha dato tanto, facendomi conoscere persone stupende e rafforzandomi nella convinzione di seguire la mia grande passione per la montagna». In quarantena nella sua casa di Cornedo all’Isarco, in Alto Adige, dove è tornata dopo due mesi in Pakistan, Tamara Lunger parla per la prima volta dell’esperienza al K2, spedizione cominciata con tanto entusiasmo e finita in tragedia, con cinque alpinisti morti. Un’esperienza che ha segnato in profondità l’alpinista 34enne, salvata, ancora una volta, da una tenacia e da una fede non comuni. «Nemmeno questa volta ho perso la fiducia in Dio», si sforza di sorridere, ripensando ai terribili momenti vissuti accanto a Sergi Mingote ormai allo stremo, il primo a perdere la vita nel tentativo di scalare, in inverno, la seconda montagna più alta della Terra (8.611 metri).
Impresa riuscita, il 16 gennaio di quest’anno, a una squadra di dieci alpinisti sherpa nepalesi, che arrivavano in vetta cantando l’inno nazionale, nelle stesse ore in cui si consumava il dramma di Mingote. «Sono stata felicissima per loro, che hanno lavorato tanto duramente per quest’obiettivo», riflette ora Lunger, ripensando a uno dei rari momenti di felicità di una spedizione che le ha riservato tanto dolore, facendole perdere altri quattro compagni di cordata.
Dopo pochi giorni, il 5 febbraio, anche il bulgaro Atanas Skatov sarebbe precipitato mortalmente, mentre altri tre alpinisti (l’islandese John Snorri, il pakistano Ali Sapdara e il cileno Juan Pablo Mohr), sarebbero scomparsi per sempre sulla montagna. «Sono convinta che siano arrivati in vetta e che sia successo qualcosa durante la discesa», riprende a raccontare Lunger. Che ha deciso di rinunciare alla scalata «perché sentivo che qualcosa non andava, che la montagna mi stava respingendo». Un’intuizione che le ha salvato la vita e che, almeno per un po’, la terrà lontana dagli Ottomila in inverno.