Agorà

GIORNATA DELLA MEMORIA. Terracina, sul ring con la stella di David

Massimiliano Castellani venerdì 25 gennaio 2013
Nel “Giorno della memoria” (domeni­ca 27 gennaio) non si può dimenti­care il sacrificio imposto anche allo sport che ha visto la deportazione di decine di atleti. Molti di loro, non sono mai tornati dai campi di sterminio. Settimio Terracina è uno di quelli che è riuscito a sfuggire ai rastrella­menti nazifascisti, ma anche la sua storia di e­breo e di pugile si era dissolta nel nulla. A far­la riaffiorare è stata la mostra Lo Sport euro­peo sotto il nazismo. Dai Giochi Olimpici di Berlino ai Giochi Olimpici di Londra (1936-1948). Alla curatrice, Laura Fontana, un gior­no dagli Stati Uniti è arrivata una documen­tazione in cui si parlava della vicenda umana e sportiva di quel ragazzo nato e cresciuto nel Ghetto di Roma. «È stata mia cugina Lisabeth a spedire quel materiale, perché voleva che la figura di suo padre fosse conosciuta e ricor­data come tanti di quegli ebrei che, anche se sono sfuggiti all’Olocausto, hanno continua­to a vivere portandosi in fondo al cuore un do­lore indicibile...», è il racconto commosso del­la nipote di Terracina, la signora Rina Mena­sci. Settimio era nato a Roma nel 1917 e a 15 an- ni, forte di un fisico possente e statuario, co­minciò ad allenarsi nella palestra pugilistica Cristoforo Colombo. Poi passò alla Trasteve­re, sotto la guida di Mariano Gabrielli. «All’e­poca con i suoi 185 centimetri d’altezza pas­sava per un gigante. Poi, quando andò in A­merica raccontava di non essersi mai sentito così “normale” tra quei colos­si bianchi e neri...», sorride la signora Rina ricordando i primi successi di quel giovanissimo peso medio mas­simo che sul ring sembrava danzare. Nel 1934 si aggiudicò il premio “Cin­tura di Roma” e i giornali dell’epoca scrivevano dell’astro Terracina: «Ha mezzi fisici di prim’ordine». Sul “Lit­toriale”, in tempi non sospetti, si va­ticinava: «Terracina è un elemento di sicuro avvenire». Il suo sinistro potente gli avversari im­pararono a conoscerlo presto a loro spese. Fu così che gli si spalancarono le porte del ritiro preolimpico di Se­nigallia. «Ci sono foto che lo ritraggo­no in allenamento in quel ritiro, ma è rimasto un mistero se mio zio, poi, partecipò alle Olimpiadi di Berlino del 1936». Non si è mai saputo, infatti, se Terracina fosse stato aggregato o meno alla nostra delegazione olimpica. Certo, invece, è quel match - la selezione per i Campionati Eu­ropei - di Ferrara, combattuto nel 1937, che sancì l’inizio della sua persecuzione razziale. «Salì sul ring indossando dei calzoncini sui quali la sua amica Nena gli aveva ricamato la stella di David. Nella nostra tradizione quello è da sempre un simbolo di protezione oltre che di fiera appartenenza al popolo ebraico». Fierezza e spirito di autodifesa del boxer che di ritorno da un viaggio in Germania aveva avvertito quel vento di antisemitismo che sta­va spirando e che in Italia sarebbe culminato di lì a poco nelle leggi razziali. Quel gesto apparve, comunque, come una provocazione e la stampa di regime non mancò di sottolinearlo: «Il medio massimo Terracina – scrissero – si è presentato sul qua­drato con un paio di pantaloncini su cui era ricamata in bella evidenza la croce sionista con al centro una scritta in ebraico (“Shad­day”,“ Dio onnipotente”, ndr): ostentazione i­nopportuna di un razzismo che nulla ha a che fare con lo sport fascista». Era stata stilata la sua condanna a morte. Quella a cui scampò, ma almeno trenta elementi del suo nucleo fa­miliare non sfuggirono alla mannaia che spezzò, indistintamente, le vite di adulti e bambini. «Era la mattina del 16 ottobre del ’43 – ricor­da Rina – e mia madre, Emma, la sorella di Settimio, cominciò a urlare: “Prendono tutte le creature, anche le donne col pancione se stanno a portà via”. Un attimo e i soldati te­deschi erano piombati in casa nostra, mentre io, la mia gemella Elda e nostro fratello Alber­to eravamo stati provvidenzialmente nasco­sti in casa dei vicini. Rimasta da sola, mia ma­dre cominciò a recitare come forse neppure Anna Magnani in Roma città aperta . A salvar­la da quella tragica commedia fu la bambina dei vicini, Elisa, che entrando in casa urlò: “so­ra È” e gli mise mano un quadernetto con su scritto quei vocaboli che gli servirono a spie­garsi e a mandare via i tedeschi».Intanto, tre anni prima di quella drammatica giornata dei rastrellamenti nel Ghetto se ne era andato anche Settimio. Con il cuore in go­la, 500 lire in tasca e i documenti che gli ave­va procurato il segretario della federazione pugilistica Edoardo Mazzia, era riuscito a fug­gire in America. Si stabilì a Chicago. Qui in­contrò il leggendario Primo Carnera e l’ami­co, l’altro pugile ebreo romano, Leone Efrati, “Lelletto”, che poi morì ad Auschwitz. Non sa­pendo una parola d’inglese, Settimio per man­giare continuò a salire sul ring con il nome di Terry Terracina. Nei 10 “match americani” ottenne 6 vittorie, 3 pareggi e una sconfitta. «Di quel periodo, però, mio zio ricordava con un certo disgusto: “Io prendevo le botte e sputavo sangue e gli altri facevano i dollari”». Gli altri, erano i gang­sters di Chicago che facevano affari d’oro con le scommesse clandestine sugli incontri, mol­to spesso truccati. Un mondo che Settimio ri­fiutava e alla fine fu quasi una salvezza il do­ver scegliere se finire nei campi di lavoro - in quanto italiano accusato di fascismo - o ar­ruolarsi nell’esercito americano. Optò per una divisa nella Quinta Armata con la quale, nel gennaio del ’44, sbarcò ad Anzio. «Raccontano che quando rimise piede sotto il Portico d’Ottavia nessuno l’aveva ricono­sciuto. Con quella divisa e quel fisico sem­brava il perfetto soldato americano. Settimio, invece, stupì tutti: mise in fila i ragazzi del Ghetto e a ognuno di loro disse nome, co­gnome e di chi erano figli…». Finita la guerra tornò a Chicago dove, con i soldi della “paga di guerra”, aprì un ristoran­te- pizzeria, sposò Marisa Monsacrati (con la quale rimase insieme fino alla morte avvenu­ta nel 1985) e nel 1954 nacque la loro unica fi­glia Lisabeth. «Settimio gli aveva dato il nome di una nostra zia, Lisa, che aveva assistito al­la deportazione di tutta la famiglia. Un ulte­riore atto d’amore per la sua gente, un modo anche quello per non dimenticare, mai...».