Nel “Giorno della memoria” (domenica 27 gennaio) non si può dimenticare il sacrificio imposto anche allo sport che ha visto la deportazione di decine di atleti. Molti di loro, non sono mai tornati dai campi di sterminio. Settimio Terracina è uno di quelli che è riuscito a sfuggire ai rastrellamenti nazifascisti, ma anche la sua storia di ebreo e di pugile si era dissolta nel nulla. A farla riaffiorare è stata la mostra Lo Sport europeo sotto il nazismo. Dai Giochi Olimpici di Berlino ai Giochi Olimpici di Londra (1936-1948). Alla curatrice, Laura Fontana, un giorno dagli Stati Uniti è arrivata una documentazione in cui si parlava della vicenda umana e sportiva di quel ragazzo nato e cresciuto nel Ghetto di Roma. «È stata mia cugina Lisabeth a spedire quel materiale, perché voleva che la figura di suo padre fosse conosciuta e ricordata come tanti di quegli ebrei che, anche se sono sfuggiti all’Olocausto, hanno continuato a vivere portandosi in fondo al cuore un dolore indicibile...», è il racconto commosso della nipote di Terracina, la signora Rina Menasci. Settimio era nato a Roma nel 1917 e a 15 an- ni, forte di un fisico possente e statuario, cominciò ad allenarsi nella palestra pugilistica Cristoforo Colombo. Poi passò alla Trastevere, sotto la guida di Mariano Gabrielli. «All’epoca con i suoi 185 centimetri d’altezza passava per un gigante. Poi, quando andò in America raccontava di non essersi mai sentito così “normale” tra quei colossi bianchi e neri...», sorride la signora Rina ricordando i primi successi di quel giovanissimo peso medio massimo che sul ring sembrava danzare. Nel 1934 si aggiudicò il premio “Cintura di Roma” e i giornali dell’epoca scrivevano dell’astro Terracina: «Ha mezzi fisici di prim’ordine». Sul “Littoriale”, in tempi non sospetti, si vaticinava: «Terracina è un elemento di sicuro avvenire». Il suo sinistro potente gli avversari impararono a conoscerlo presto a loro spese. Fu così che gli si spalancarono le porte del ritiro preolimpico di Senigallia. «Ci sono foto che lo ritraggono in allenamento in quel ritiro, ma è rimasto un mistero se mio zio, poi, partecipò alle Olimpiadi di Berlino del 1936». Non si è mai saputo, infatti, se Terracina fosse stato aggregato o meno alla nostra delegazione olimpica. Certo, invece, è quel match - la selezione per i Campionati Europei - di Ferrara, combattuto nel 1937, che sancì l’inizio della sua persecuzione razziale. «Salì sul ring indossando dei calzoncini sui quali la sua amica Nena gli aveva ricamato la stella di David. Nella nostra tradizione quello è da sempre un simbolo di protezione oltre che di fiera appartenenza al popolo ebraico». Fierezza e spirito di autodifesa del boxer che di ritorno da un viaggio in Germania aveva avvertito quel vento di antisemitismo che stava spirando e che in Italia sarebbe culminato di lì a poco nelle leggi razziali. Quel gesto apparve, comunque, come una provocazione e la stampa di regime non mancò di sottolinearlo: «Il medio massimo Terracina – scrissero – si è presentato sul quadrato con un paio di pantaloncini su cui era ricamata in bella evidenza la croce sionista con al centro una scritta in ebraico (“Shadday”,“ Dio onnipotente”, ndr): ostentazione inopportuna di un razzismo che nulla ha a che fare con lo sport fascista». Era stata stilata la sua condanna a morte. Quella a cui scampò, ma almeno trenta elementi del suo nucleo familiare non sfuggirono alla mannaia che spezzò, indistintamente, le vite di adulti e bambini. «Era la mattina del 16 ottobre del ’43 – ricorda Rina – e mia madre, Emma, la sorella di Settimio, cominciò a urlare: “Prendono tutte le creature, anche le donne col pancione se stanno a portà via”. Un attimo e i soldati tedeschi erano piombati in casa nostra, mentre io, la mia gemella Elda e nostro fratello Alberto eravamo stati provvidenzialmente nascosti in casa dei vicini. Rimasta da sola, mia madre cominciò a recitare come forse neppure Anna Magnani in Roma città aperta . A salvarla da quella tragica commedia fu la bambina dei vicini, Elisa, che entrando in casa urlò: “sora È” e gli mise mano un quadernetto con su scritto quei vocaboli che gli servirono a spiegarsi e a mandare via i tedeschi».Intanto, tre anni prima di quella drammatica giornata dei rastrellamenti nel Ghetto se ne era andato anche Settimio. Con il cuore in gola, 500 lire in tasca e i documenti che gli aveva procurato il segretario della federazione pugilistica Edoardo Mazzia, era riuscito a fuggire in America. Si stabilì a Chicago. Qui incontrò il leggendario Primo Carnera e l’amico, l’altro pugile ebreo romano, Leone Efrati, “Lelletto”, che poi morì ad Auschwitz. Non sapendo una parola d’inglese, Settimio per mangiare continuò a salire sul ring con il nome di Terry Terracina. Nei 10 “match americani” ottenne 6 vittorie, 3 pareggi e una sconfitta. «Di quel periodo, però, mio zio ricordava con un certo disgusto: “Io prendevo le botte e sputavo sangue e gli altri facevano i dollari”». Gli altri, erano i gangsters di Chicago che facevano affari d’oro con le scommesse clandestine sugli incontri, molto spesso truccati. Un mondo che Settimio rifiutava e alla fine fu quasi una salvezza il dover scegliere se finire nei campi di lavoro - in quanto italiano accusato di fascismo - o arruolarsi nell’esercito americano. Optò per una divisa nella Quinta Armata con la quale, nel gennaio del ’44, sbarcò ad Anzio. «Raccontano che quando rimise piede sotto il Portico d’Ottavia nessuno l’aveva riconosciuto. Con quella divisa e quel fisico sembrava il perfetto soldato americano. Settimio, invece, stupì tutti: mise in fila i ragazzi del Ghetto e a ognuno di loro disse nome, cognome e di chi erano figli…». Finita la guerra tornò a Chicago dove, con i soldi della “paga di guerra”, aprì un ristorante- pizzeria, sposò Marisa Monsacrati (con la quale rimase insieme fino alla morte avvenuta nel 1985) e nel 1954 nacque la loro unica figlia Lisabeth. «Settimio gli aveva dato il nome di una nostra zia, Lisa, che aveva assistito alla deportazione di tutta la famiglia. Un ulteriore atto d’amore per la sua gente, un modo anche quello per non dimenticare, mai...».