«Con rinnovata passione studiò e fissò nella materia, sublimata nell’arte, le tracce più preziose della vita di Gesù: trasfondendo nella tecnica una sostanza teologica, ed elargendo ricchezze di monumenti sacri, dalle vette del Tabor alle rive del Giordano». Con queste parole Onorio Sbrissa, sull’
Almanacco di Terra Santa del 1962, descriveva l’opera dell’architetto Antonio Barluzzi, scomparso solo due anni prima a Roma, dopo oltre quarant’anni di attività febbrile in Terra Santa. Tra le sue opere più importanti (e monumentali), la basilica del Tabor, la basilica del Getsemani e il santuario della visitazione ad Ain Karem. Nato a Roma nel 1884, figlio una famiglia della borghesia romana, Antonio Barluzzi è una figura studiata oggi nelle facoltà d’architettura e dagli storici dell’arte israeliani, ma praticamente ignorata in Italia. Eppure non c’è pellegrino che, recandosi in Terra Santa, non trovi sul suo cammino chiese e edifici realizzati da questo architetto scomparso cinquant’anni fa, il 14 dicembre 1960. E la cui straordinaria opera sarà ricordata con un convegno e una mostra a Gerusalemme il 15 dicembre, alla presenza del Custode di Terra Santa padre Pierbattista Pizzaballa.Ma chi è stato Antonio Barluzzi? E come è avvenuto il suo incontro con i Luoghi Santi? Il primo contatto è propiziato dal fratello Giulio, ingegnere, che lo porta con sé a Gerusalemme nel 1912 coinvolgendolo nella costruzione dell’Ospedale commissionatogli dall’
Associazione nazionale per soccorrere i missionari italiani (Ansmi). Un edificio che esiste tuttora e che ospita la sede del ministero dell’Istruzione del governo israeliano. Per Antonio (che aveva un forte senso religioso e che, fin dall’adolescenza, aveva seriamente preso in considerazione la vocazione sacerdotale) inizia con i Luoghi Santi un rapporto che durerà tutta la vita. Fattosi le ossa come ingegnere e architetto alla scuola del fratello Giulio, al termine della prima guerra mondiale riceve dal Custode del tempo, padre Ferdinando Diotallevi, l’incarico di progettare e costruire le chiese del Monte Tabor e del Getsemani. Padre Diotallevi affida al Barluzzi questa missione: rendere evidenti le caratteristiche della spiritualità francescana nei luoghi dell’Incarnazione. Un’indicazione che Barluzzi cerca di mettere in pratica tutta la vita, e che è la caratteristica della sua opera di architetto in Terra Santa: non la preoccupazione di elaborare una cifra stilistica propria e riconoscibile, ma piuttosto la necessità di modellare l’architettura per esprimere il mistero di fede legato al luogo e all’evento che esso narra. Inizia così nel 1919 la costruzione della basilica del Tabor, con lo sforzo di rendere nelle masse e nelle forme il mistero della Trasfigurazione di Cristo. Un’opera, quella del Tabor, che lo costringe a superare infinite difficoltà di carattere tecnico: tutto il materiale da costruzione e perfino l’acqua viene trasportato in vetta al monte a dorso di mulo. Tocca poi alla basilica del Getsemani, nel luogo dell’agonia di Cristo. Un edificio, terminato nel 1924, che vuole aiutare il pellegrino a rivivere la sofferenza di Gesù e il dolore per il tradimento. Dopo aver restaurato la cappella della Flagellazione a Gerusalemme (1928) e aver progettato e costruito l’Ospedale italiano di Haifa (1934), al Barluzzi viene affidato l’incarico di costruire il santuario delle Beatitudini, sul Lago di Galilea. «Ho cercato di ottenere – scriveva – un ambiente di grande serenità nella dolcezza delle linee e dei chiaroscuri e nella tranquilla gradazione dei semitoni dello stesso colore, ambiente adatto alla elevazione dello spirito». Nel 1937 Barluzzi si occupa del restauro della cappella del Calvario al piano superiore del Santo Sepolcro. Un luogo che, come scrive lui stesso, si trova in uno stato di «squallore desolante». È poi incaricato dal Custode padre Alberto Gori (in seguito anche Patriarca latino di Gerusalemme) della costruzione del santuario della Visitazione, nel luogo dove la tradizione ambienta l’incontro tra la Vergine Maria e la cugina Elisabetta. Durante tutto il tempo dei lavori, com’è suo stile, Barluzzi si trasferisce ad Ain Karem, vivendo praticamente nel cantiere insieme agli operai. Dopo la parentesi della seconda guerra mondiale, è incaricato di realizzare altri importanti santuari: Betfage, Betania, la cappella del Campo dei Pastori a Betlemme, il Dominus Flevit sul Monte degli Ulivi, da cui si gode un panorama unico sulla città vecchia di Gerusalemme. È una fase di grande creatività e operosità.L’ultima parte della sua vita è però segnata da un grande sogno e da un altrettanto grande dolore… «Durante la guerra – spiega Giovanna Franco Rapellino, che a Barluzzi ha dedicato un lungo saggio pubblicato nel numero di ottobre dalla rivista
Terrasanta – trascorse il suo tempo lavorando ai disegni della basilica dell’Incarnazione a Nazaret, che egli riteneva l’opera più importante della sua vita; i disegni e il modellino di questa chiesa vennero addirittura esposti e pubblicati durante l’Anno Santo nel 1950 a Roma. Il sogno però non si concretizzò mai. L’incarico fu dato in seguito all’architetto milanese Giovanni Muzio, fatto questo che al Barluzzi procurò un inconsolabile dolore». Afflitto dalla cataratta (aveva perso la vista da un occhio), in preda a ripetuti esaurimenti nervosi, rientra infine in Italia. Dona i suoi beni a un istituto di suore calasanziane e trascorre i suoi ultimi anni in una cella francescana del convento della Delegazione di Terra Santa a Roma, dove muore a 76 anni. Il superiore del tempo, padre Pacifico Gori, nel dare la notizia della scomparsa dell’«architetto di Terra Santa», ne mette in evidenza soprattutto le doti umane e spirituali: «Fu innanzitutto un uomo di fede, di preghiera e di profonda vita interiore. Rinunciò ai vantaggi che la professione gli avrebbe potuto procurare e volle vivere e morire povero accanto ai francescani di Terra Santa».