Agorà

Anniversario. Kant: tre secoli sull'abisso della filosofia

Giuseppe Lorizio lunedì 22 aprile 2024

Un ritratto (1790 circa) del filosofo Immanuel Kant

La “rivoluzione copernicana” che Immanuel Kant (di cui il 22 aprile ricordiamo i trecento anni dalla nascita) intendeva attuare col suo progetto speculativo non poteva non interpellare la teologia e sollecitarla in rapporto alle grandi tematiche che il filosofo di Königsberg ha affrontato nelle tre critiche e nelle opere di filosofia della religione. In realtà, Kant è un ospite scomodo per il pensiero cattolico e per la teologia in particolare, tanto che l’apologetica neoscolastica ebbe a coniare la formula del “venenum kantianum”, dal quale cercava di tenere lontane le giovani menti di quanti venivano introdotti agli studi teologici.

La stessa apologetica si incaricava altresì di annoverare fra i pensatori poco affidabili, se non addirittura nocivi, colui che Bertrando Spaventa prima e la critica neoidealista poi avevano denominato il “Kant italiano”: il beato Antonio Rosmini. Questi in età giovanile, aveva letto le opere kantiane in una edizione latina (Lipsia 1816) e sul frontespizio aveva scritto di suo pugno la lapidaria espressione “vorago orribilis!”.

Prudenza speculativa suggerirebbe di tenersi a distanza dalla voragine kantiana, invece quanti, a partire dal Roveretano, l’hanno affrontata non senza spirito critico, ma anche senza pregiudiziali aprioristiche, insegnano a noi tutti che tale incontro può, a lungo andare, risultare catartico per il pensiero credente e la stessa teologia. Allorché, infatti, si riemerge dall’abisso, innanzitutto si può scoprire un pensatore molto diverso da quello che la manualistica apologetica tende, ancora oggi a proporre. Colui che ha indicato nell’illuminismo un processo attraverso il quale il mondo e l’uomo raggiungono lo stato adulto, aveva, in diverse occasioni, pensato i limiti della pura ragione persino in rapporto alla conoscenza della natura delle cose (= noumeno) e, quanto al problema dell’esistenza di Dio, si era fatto carico di smascherare i “paralogismi” caratterizzanti i diversi tentativi di dimostrazione, finendo con l’assumere una sorta di prospettiva apofatica, non lontana da quanto Tommaso d’Aquino, nel famoso quaresimale del 1273 aveva segnalato, dicendo: «La nostra mente è tanto debole che mai alcun filosofo è riuscito a sondare fino in fondo la natura di una semplice mosca».

Certo tale apofatismo non potrà essere condiviso da esponenti del neotomismo che si incaricarono di contrastare i tentativi, peraltro proficui, di adottare il metodo trascendentale in teologia messi in atto, ad esempio, da Joseph Maréchal (contro cui si scagliò Réginald Garrigou-Lagrange) e da Karl Rahner (contro la cui “svolta antropologica” lanciò i suoi strali Cornelio Fabro). Eppure, il tentativo di padre Maréchal di pensare un “tomismo trascendentale”, capace di attualizzare il pensiero dell’Aquinate, proprio nel confronto con quello kantiano ha certamente avuto il grande merito di rivitalizzare la lezione tommasiana. I cinque cahiers, sul punto di partenza della metafisica, editi a Bruges-Lovanio fra il 1922 e il 1947 costituiscono il grembo da cui muovono il modello antropologico-trascendentale di Karl Rahner e quello metodologico-trascendentale di Bernard Lonergan. Rimaniamo così nell’ambito della Compagnia di Gesù e dei grandi teologi che l’ordine ignaziano ha consegnato al Novecento.

Le grandi questioni attraverso cui orientarsi nel pensiero kantiano: che cosa posso conoscere? Che cosa devo fare? Che cosa posso sperare? Chi è l’uomo? entrano a pieno titolo nel sapere teologico e contribuiscono ad aprirlo alla modernità, pur nella consapevolezza delle sue criticità. Un aspetto particolarmente intrigante della riflessione di Kant riguarda il terribile problema del male radicale e del suo senso. Da tale questione prende le mosse La religione nei limiti della semplice ragione (1793-94), preceduta dal testo Sull’insuccesso di ogni saggio filosofico di teodicea (1791). il Kant che da un lato si misura con il tentativo leibniziano e dall’altro con la tragedia del sisma di Lisbona, che aveva suggerito l’irridente satira voltairiana verso il migliore dei mondi possibili, imposta non soltanto la propria riflessione sulla teodicea, ma oseremmo dire la propria “filosofia della religione” a partire dal “male radicale”, sviluppandola nei termini dell’antagonismo con il principio del bene, la cui vittoria non solo auspica, ma ritiene possibile, per il tramite dell’impegno morale dell’uomo.

Affermando l’impossibilità di ogni teodicea razionale (o dottrinale), Kant rimanda di fatto alla necessità di postularne almeno i principi, allorché il discorso si sposta dal piano puramente teoretico della ragion pura a quello dell’etica e quindi della ragion pratica. Ritenere, il divieto kantiano, interpretandolo nei termini scettici di una radicale chiusura al soprannaturale e alla trascendenza, aprirebbe le porte al nichilismo, ossia farebbe sì che l’itinerario filosofico del pensatore tedesco si affacci su quella orribile voragine, che il Roveretano aveva intravisto, e che – secondo un suggestivo passaggio heideggeriano – Kant stesso avrebbe percepito, ritraendosi inorridito dal compiere l’ultimo passo cui l’avrebbe condotto l’esercizio dell’immaginazione trascendentale: l’abisso del nulla e del non senso nel quale rischia di soccombere (e del quale oggi spesso si nutre) ogni pensiero che non tenga conto, oltre che delle proprie immense potenzialità, anche dei propri limiti o confini.

Ecco come Kant esprime l’invalicabilità del limite: «[…] solo colui che si spinge sino alla conoscenza del mondo soprasensibile (intelligibile) e a capire il modo in cui sta a fondamento del mondo sensibile, giunge però a comprenderla. Solo su questa conoscenza si può fondare la prova della saggezza morale del Creatore nel mondo sensibile, poiché quest’ultimo ci presenta soltanto l’apparenza di quello soprasensibile: ma ad essa nessun mortale può giungere ». Sarà necessario il “salto” della fede perché sia superato il fossato orrendo e ci raggiunga la comprensione del senso del dolore innocente, di cui Giobbe, con la sua teodicea apofatica, è figura emblematica e decisiva (per Kant). «Giobbe parla come pensa e secondo i sentimenti che prova e che ogni altro uomo al suo posto proverebbe. I suoi amici invece parlano come se segretamente fossero uditi da quell’Onnipotente, la cui causa essi giudicano, e come se stesse loro a cuore più il ricevere il favore di Dio per il loro giudizio che non la verità. Questa loro perfidia, di affermare solo per l’apparenza cose che essi debbono confessare che non hanno comprese e di simulare una convinzione che non hanno, urta contro la franchezza di Giobbe così lontana dall’adulazione, che sebbene sia al limite dell’arroganza, finisce con il tornare a suo vantaggio.

Egli dice: «Volete forse difendere Dio ingiustamente? Volete far parzialità per Lui? Volete parlare per Lui? Egli vi punirà se in segreto farete parzialità! Nessun ipocrita verrà al suo cospetto! ». La conclusione della storia conferma effettivamente queste ultime parole. Infatti, Dio apprezza Giobbe e gli pone di fronte agli occhi la saggezza della sua creazione, soprattutto nell’aspetto per cui essa è insondabile ». Torniamo così alla prospettiva apofatica del pensiero kantiano. Certo non sappiamo se e quanto i modelli teologici sopra evocati e che Kant ha senz’altro ispirato possano reggere, data la loro tendenza all’antropocentrismo, all’impatto con l’antropocene oggi dominante. Di qui l’inattualità del pensiero kantiano che si mostra altresì a partire dall’inascoltato testo Per la pace perpetua (1795), di cui invece avremmo dovuto fare tesoro e a cui la teologia, che si arrampica sugli specchi per giustificare i conflitti armati, dovrebbe guardare: «Gli eserciti permanenti ( miles perpetuus) devono con il tempo scomparire del tutto» e «Non devono essere fatti debiti pubblici in vista di conflitti esterni dello Stato»: ideali più che teologici, che oserei chiamare semplicemente evangelici, oltre che razionali.