Durante la tavola rotonda «Parlare di Dio nella società secolare», Lluís Oviedo (ordinario di antropologia teologica e teologia fondamentale all’Antonianum) e Marcello Pera (già presidente del Senato nonché filosofo della scienza) domani, mercoledì 2 dicembre alle 17.30 presentano alla Pontificia Università della Santa Croce di Roma i primi due volumi di «Teologia fondamentale in contesto scientifico» di Giuseppe Tanzella-Nitti (Città Nuova); modera Robert Cheaib, docente di teologia fondamentale alla Cattolica di Roma. Don Tanzella-Nitti (nella foto), laureato in astronomia a Bologna nel 1977, si è dedicato per alcuni anni alla ricerca scientifica in radioastronomia e cosmologia, svolgendo l’attività di ricercatore Cnr, ed è sacerdote dal 1987. Da teologo rivolge ora il suo interesse ai rapporti fra Rivelazione cristiana e cultura contemporanea, pubblicando saggi sulla conoscenza naturale di Dio, sull’unità del sapere e sulle dimensioni umanistiche della ricerca scientifica. È inoltre autore di articoli nei campi dell’epistemologia teologica, dei rapporti fra teologia e scienze e dell’evangelizzazione della cultura.L’opera è di quelle che meritano un’attenzione particolare: per la mole, quasi 3.000 pagine previste di grande dimensione, l’ampiezza del lavoro preparatorio, una decina d’anni, e il respiro del progetto. Si tratta di
Teologia fondamentale in contesto scientifico, una vera e propria
summa di cui Città Nuova ha appena pubblicato i primi due di 4 volumi previsti (
Teologia della credibilità 1 e 2). L’autore è don Giuseppe Tanzella-Nitti, classe 1955, docente di teologia fondamentale alla Pontificia Università della Santa Croce, direttore del Centro di Documentazione Interdisciplinare di Scienza e Fede (disf.org) e della Scuola Internazionale Superiore per la Ricerca Interdisciplinare (sisri. it). Laureatosi in astronomia a Bologna, don Tanzella- Nitti è stato anche ricercatore del Cnr.
Professore, partiamo dal titolo generale: «Teologia fondamentale in contesto scientifico». Cosa suggerisce questo «contesto» alla teologia? «La teologia fondamentale ha come compito, fra l’altro, ascoltare cosa si discute oggi sulla piazza. E sulla piazza si parla anche di scienza. Nel clima di pensiero debole e di relativismo che attraversiamo, il pensiero scientifico si presenta in controtendenza, come pensiero forte. Ci ha fornito conoscenze precise sul nostro passato ed è capace di orientare il nostro futuro; ci ha mostrato la nostra collocazione nel mondo naturale – cosmologia, biologia… – e di fronte a noi stessi – psicologia, neuroscienze –. Anche l’uomo della strada ragiona oggi implicitamente in termini scientifici. Una teologia che voglia servire l’evangelizzazione non può non tenerne conto. Il contesto scientifico non è necessariamente 'problematico' come spesso viene percepito. Abbiamo imparato da san Giovanni e san Paolo che nostra fede ha un respiro universale, cosmico, e dunque non deve temere un orizzonte spazio- temporale enormemente ampliato, come quello che oggi conosciamo. Se annunciamo Gesù Cristo come centro del cosmo e della storia, dobbiamo prima di tutto sapere cosa sia il cosmo e cosa abbia detto la storia. Ritengo che il Simbolo della fede, recitato da un credente del XXI secolo, mostri a questo proposito implicazioni più ricche e profonde di quelle che poteva suscitare in un credente nei primi secoli dell’era cristiana».
Nella sua opera riemerge potentemente una parola accantonata dopo il Concilio Vaticano II, «apologia », che ritroviamo nel titolo del primo volume del suo trattato. In che senso la teologia fondamentale deve riscoprire questo termine, che letteralmente è «discorso in difesa di»? «In realtà il termine apologia, quello da me impiegato perché ha radici patristiche, ha un significato che va ben al di là del difendersi da qualcuno, o peggio da combattere chicchessia. Etimologicamente vuol dire parlare 'di fronte' a qualcuno, cioè un interlocutore al quale si spiega qualcosa. Ci ricorda, se mi passa l’espressione, che la teologia non può 'parlarsi addosso'. Il suo discorso non può essere autoreferenziale. Il nostro interlocutore pone domande, chiede chiarimenti, ci richiama alle implicazioni della nostra fede. Se paragoniamo l’esposizione delle verità di fede a una melodia da interpretare, le domande della ragione – ragione scientifica compresa – fanno da 'contrappunto'. Obbligano, cioè, a fermarci, a tornare indietro, a spiegarci meglio, a ri- prendere il filo. La metafora è impiegata da Josef Pieper quando parla del rapporto fra fede e ragione come fra melodia e contrappunto. In questo senso, ritengo che l’apologia non sia una 'parte' della teologia fondamentale, magari da collocare dopo una dogmatica sulla Rivelazione, bensì una 'dimensione' che deve accompagnare tutta l’esposizione del Credo. È quello che fa la
Gaudium et spes, quando espone i contenuti della fede cristiana proprio sullo sfondo delle domande dell’uomo, di cui comprende la radicalità e la portata. Apologia vuol dire oggi saper partire dai nostri interlocutori, dalle loro domande, dai loro bisogni, anche inespressi.Vuol dire saper loro mostrare perché Gesù Cristo rivela l’uomo all’uomo, perché rende la società davvero umana, vivibile. Apologia vuol dire non rifugiarsi in frasi fatte o in luoghi comuni, che non convincono più nessuno. Vuol dire, in sostanza, continuare a far appello alla ragione, sapendo però che oggi la ragione va risanata, perché malata».
Dalle profezie che annunciano Gesù nel Primo Testamento alla Sindone di Torino, dai preamboli della fede alle «prove» della risurrezione di Gesù: nella sua opera sono presenti temi che non siamo abituati a vedere nei trattati di teologia fondamentale: qual è il significato del loro recupero? «Lei cita temi assai diversi. Ho cercato di recuperare, è vero, l’argomento classico delle profezie inserendole però nell’ottica della teologia fondamentale contemporanea, come parte della logica della credibilità cristiana, quella del compimento di una promessa. Esaminando da vicino i progetti apologetici dei Padri ho notato che essi, sia nell’Occidente latino che nell’Oriente greco, prendevano avvio da due grandi preamboli: la religione e la filosofia. Operavano, è vero, un discernimento dell’una e dell’altra, ma le ritenevano entrambe necessarie per far capire chi era il Dio di Gesù Cristo che si stava annunciando. Oggi l’evangelizzazione incontra difficoltà perché, fra l’altro, abbiamo rinunciato a questi preamboli. Non ci fa problema convivere con una filosofia debole – cosa che qualche teologo vede perfino con soddisfazione –, né ci preoccupiamo di saper sostenere la dimensione culturale e pubblica della religione nel dibattito sociale e politico. Nel secondo volume,
La credibilità del cristianesimo, ho dedicato ampio spazio alla risurrezione di Gesù di Nazaret perché è il centro della nostra fede, una fede che san Paolo qualifica vana, se Cristo non fosse davvero risorto. Ripercorro le obiezioni antiche e moderne, ponendole in dialogo con il sentire dell’uomo di oggi. Non ho certo posto la Sindone di Torino fra le 'prove' della risurrezione: ho soltanto suggerito alla teologia di inserirla fra i probabili reperti documentali che potrebbero parlarci di Gesù di Nazaret, cosa che finora non mi sembra la teologia abbia fatto».
Un manuale per i non credenti, dunque, per convincerli ad accogliere la fede? «Non direi. Piuttosto un aiuto alla riflessione dei credenti, perché sappiano parlare della credibilità della Rivelazione e della credibilità del Rivelatore, Gesù di Nazaret, facendo più attenzione ad ascoltare di cosa si parla oggi sulla piazza».