Dibattito. La teologia in uscita, missione della modernità
Nella costituzione apostolica Veritatis gaudium (2018), Papa Francesco sottolinea che gli studi ecclesiastici, nello spirito di una «Chiesa in uscita», sono chiamati oggi ad approfondire il dialogo con le scienze (n. 5). L’esortazione non è certamente nuova, se solo pensiamo che il Concilio Vaticano II ha incoraggiato la teologia a dialogare coi vari ambiti del sapere ( Gaudium et spes, 62; Optatam totius, 15). Francesco, tuttavia, va ben al di là di una semplice raccomandazione o di una dichiarazione di principio: invita a coinvolgere il lavoro teologico nello stesso dinamismo trasformante dell’evangelizzazione, per renderlo espressione di servizio e di comunione con l’altro.
Le periferie alle quali la Chiesa in uscita deve dirigersi, infatti, sono anche gli ambiti del sapere ove la Parola non è ancora risuonata, oppure vi è risuonata ma non ha ancora preso su di sé la carne delle nuove conoscenze, non è ancora divenuta forma di sintesi convincenti. La Chiesa oggi necessita di una 'teologia in uscita' in grado d’intessere relazioni significative col mondo della vita e della cultura, a servizio dell’intelligibilità di una Parola che a tutti è destinata. Secondo Papa Francesco gli studi ecclesiastici, in forma peculiare, «costituiscono una sorta di provvidenziale laboratorio culturale in cui la Chiesa fa esercizio dell’interpretazione performativa della realtà che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo» ( Veritatis gaudium, 3). Essi, anzi, sono chiamati a incentivare tale specifico ruolo. E ciò per una triplice convergente ragione: il cambiamento d’epoca segnato da una complessiva crisi antropologica e socio-ambientale; la necessità di un «radicale cambio di paradigma» se non in fin dei conti di «una coraggiosa rivoluzione culturale », tesa a un pertinente ed efficace affronto di tale situazione; il comune impegno a «costruire leadership che indichino strade».
Si può dire che la posta in gioco a motivo del «cambiamento d’epoca » oggi in atto impone in primis alla teologia, ma insieme a tutte le discipline previste negli studi ecclesiastici, una decisa e per molti versi ancora in fieri assunzione della forma e dello stile di configurazione e d’esercizio propiziati dal Vaticano II e dall’onda profonda del processo da esso innescato. Papa Francesco descrive tale compito in questi termini: «Si fa oggi sempre più evidente che c’è bisogno di una vera ermeneutica evangelica per capire meglio la vita, il mondo, gli uomini, non di una sintesi ma di una atmosfera spirituale di ricerca e certezza basata sulle verità di ra- gione e di fede. (…) Il buon teologo e filosofo ha un pensiero aperto, cioè incompleto, sempre aperto al maius di Dio e della verità, sempre in sviluppo» (ibid.).
Di qui il criterio epistemologicamente ed accademicamente forse più esigente che egli propone nella Veritatis gaudium per raggiungere tale obiettivo. In un tempo che, con la crisi della modernità anche a livello di coscienza epistemologica e con la conseguente tentazione pendolare di consegnarsi o alla resa (spesso tutt’altro che tollerante) della post-verità o alla resistenza (anch’essa violenta, perché disperata) del fondamentalismo, occorre ribadire la possibilità, come già indicava Giovani Paolo II nella Fides et ratio, anzi la necessità vitale di «giungere a una visione unitaria e organica del sapere. Questo è uno dei compiti di cui il pensiero cristiano dovrà farsi carico nel corso del prossimo [ormai l’attuale] millennio cristiano» (n. 85).
Il compito è senz’altro arduo, ma epocalmente decisivo. E sottrarvisi significherebbe non solo non onorare l’eredità preziosa e incalzante della Rivelazione, ma, di fatto, rendere la performance del sistema degli studi ecclesiastici di più in più irrilevante. La stimolante e orientatrice indicazione che la Veritatis gaudium offre in proposito è quella che indirizza l’interpretazione e la gestione del principio di interdisciplinarietà non alla sua «forma 'debole' di semplice multidisciplinarietà » in prospettiva per così dire orizzontale, quanto piuttosto alla sua «forma 'forte' di transdisciplinarietà, come collocazione e fermentazione di tutti i saperi entro lo spazio di Luce e di Vita offerto dalla Sapienza che promana dalla Rivelazione di Dio», in prospettiva per così dire verticale, aperta e fondata cioè nel farsi presente della trascendenza di Dio alla storia dell’uomo in Cristo (4c).
Come una 'teologia in uscita', che si faccia responsabilmente carico di questa urgente e impegnativa missione, possa operare e servire non è sempre facile da individuare e ancor più da realizzare. Per questo vanno seguite con interesse quelle proposte che cercano di presentare la teologia come un corpo di conoscenze che si lasciano provocare dall’uomo contemporaneo, adoperandosi per offrire risposte sensate e credibili alle domande che egli pone. Da vari decenni, la teologia fondamentale sviluppata nelle opere di don Giuseppe Tanzella-Nitti rappresenta uno di questi riusciti tentativi, in particolare a partire dalla pubblicazione del Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede (2002). Il progetto di una Teologia fondamentale in contesto scientifico, che vede ora edito il suo terzo volume: Religione e Rivelazione, non intende semplicemente aggiungere nuovi saggi al tema del dialogo fra teologia e scienze su specifici argomenti di frontiera, già presenti nella produzione di altri filosofi o teologi. Siamo piuttosto di fronte, in felice sintonia con quanto chiede la Veritatis gaudium, al programma architettonicamente costruito di sviluppare un intero trattato teologico avendo come interlocutore l’uomo di scienza, ovvero gli uomini e le donne del nostro tempo il cui modo di pensare - di fatto - è forgiato dalla cultura scientifica. A essi una 'Chiesa in uscita' dirige oggi l’annuncio del Vangelo.