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Testimonianza. Padre Fausto Tentorio: il volto di un martire

Gianfranco Ravasi domenica 19 luglio 2015

Padre Fausto Tentorio, missionario del Pime, è stato ucciso il 17 ottobre 2011

Gli sparò a bruciapelo con una pistola, colpendolo alla testa e alla schiena mentre usciva dalla parrocchia di Arakan per andare a un incontro diocesano. Il killer, un uomo dal volto coperto, fuggì in motocicletta con un complice che lo stava aspettando. Padre Fausto Tentorio, missionario del Pime, è morto così, alle 8 di mattina del 17 ottobre 2011. Aveva 59 anni. Si trovava dal 1979 nell’isola di Mindanao, chiamata “il Far West delle Filippine”: centomila ettari di foreste, fondi coltivati a frutta e, soprattutto, miniere d’oro e rame. Campi fecondi, “requisiti” da gruppi di coloni venuti da fuori, usurpatori che volevano cacciare gli indigeni “manobo” dalle loro terre. Era con gli “ultimi” che padre Fausto svolgeva la sua missione: li riunì in cooperative agricole, convinse il governo di Manila a riconoscere loro quelle antiche terre a far bloccare tutte le attività minerarie. Viveva in una capanna di bambù col tetto di lamiera, sfidava le epidemie, le guerre, gli assalti delle bande criminali al soldo di ricchi imprenditori. Fu minacciato, per quello che stava facendo, ma non si volle fermare. E per questo fu ucciso. La sua storia è raccontata nel libro Fausto Tentorio, martire per la giustizia (edizioni San Paolo, pagine 112, euro 12,00), di Giorgio Bernardelli, da domani nelle librerie. Pubblichiamo qui a fianco ampi stralci della prefazione del cardinale Gianfranco Ravasi. (Fulvio Fulvi)

Domenica 21 settembre 2014: in una luminosa mattinata ero in Brianza, a Santa Maria Hoè, il luogo di nascita di mia madre e l’orizzonte più caro dei ricordi estivi della mia infanzia, adolescenza e giovinezza. In quel giorno ero stato invitato a celebrare il centenario della parrocchia che aveva come sede la splendida chiesa appartenente in passato ai Servi di Maria, dedicata all’Addolorata e a Sant’Antonio abate. Al termine della Messa solenne, tutta la comunità si era raccolta nell’ampia piazza antistante che da quel giorno si sarebbe trasformata in “piazza padre Fausto Tentorio”. In quei momenti, mentre si snodavano i discorsi commemorativi e le testimonianze, circondati come eravamo dalle colline verdeggianti della Brianza, avvolti dal sole del primo autunno, davanti a me passavano in dissolvenza tante immagini intense e irrevocabili di mezzo secolo prima. E il volto di padre Fausto era ancora per me quello esile ma vivace di allora, come lo era il suo corpo di ragazzino che ogni mattina, dopo la Messa dell’alba, era di fronte a me, seduto sui gradini dell’antico coro monastico ad ascoltarmi. Ero in quegli anni studente di teologia a Roma e poi giovane sacerdote, e d’estate ritornavo in vacanza con la mia famiglia nella nostra casa materna: in quegli istanti il suo viso era fisso su di me, più di quello degli altri chierichetti, compreso suo fratello Felice. Ho solo un ricordo preciso di quanto dicevo a quei ragazzi: nei giorni in cui si celebravano le memorie liturgiche dei martiri leggevo loro il racconto della “passione” di quei santi, traducendola dalle letture latine del Mattutino del Breviario Ambrosiano. Mai avrei pensato che in filigrana a quelle narrazioni spesso truci e impressionanti potesse emergere il volto e la storia di quel ragazzino che mi stava allora di fronte.

Questi pensieri e memorie, in quella domenica di settembre, si associavano ad altri ricordi, in particolare a quando avevo ritrovato – sia pure per un arco di anni limitato – il giovane Fausto come alunno tra i banchi del Seminario Teologico milanese dove insegnavo la Sacra Scrittura. Da lì egli sarebbe passato a quel futuro missionario che avrebbe costituito la sostanza più autentica della sua esistenza.

La mia vita si sviluppò poi lungo percorsi diversi rispetto a quelli di padre Fausto. Proprio per questo erano rimasti nel nostro rapporto solo contatti indiretti attraverso notizie che mi giungevano da conoscenti comuni, oppure in eventi particolari come la sua ordinazione sacerdotale nel giugno 1977, o incroci occasionali che le mie sorelle avevano con lui durante i suoi rari ritorni a Santa Maria Hoè dalle Filippine. Era scontato per me immaginare la sua totale e assoluta donazione in quel ministero di fede e di amore in una terra così lontana dalle sue radici: fin da piccolo brillava in lui una luminosità nello sguardo nel quale idealmente s’affacciava la sua generosità e la passione per un ideale. Una frase, spesso evocata, del suo testamento potrebbe infatti essere quasi il motto simbolico della sua esistenza umana e sacerdotale: «I vostri sogni sono i miei sogni, le vostre battaglie per la libertà sono le mie battaglie per la libertà, voi e io siamo compagni nella costruzione del regno di Dio». E il suggello di questa pienezza di donazione a Dio e ai “fratelli più piccoli” è stato in quel 17 ottobre 2011 che corrisponde a un’altra mia memoria particolare di padre Fausto.

La sera dell’indomani – che era anche il giorno del mio compleanno – la notizia del suo martirio mi giunse proprio da un vescovo missionario mio amico che, telefonandomi per gli auguri, mi comunicava questo evento drammatico. È una figura che merita le parole del monaco Zosima nel celebre romanzo I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij: «L’umanità non riconosce i suoi profeti e li massacra; ma gli uomini amano i loro martiri e venerano coloro che hanno torturato». La testa mozzata di Giovanni Battista parla dal vassoio ancor più forte di quando era sul suo collo. Ha ragione il proverbio orientale che afferma: «Il giusto, come il legno di sandalo, profuma l’ascia che lo colpisce». La potenza del martire, che è vittima, è paradossalmente più alta di quella del suo carnefice perché il suo sangue feconda la storia e continua a gridare la verità anche al suo stesso assassino. La spada recide i corpi, ma le idee e l’amore sono indistruttibili, e la stessa mano omicida porterà con sé una stimmata che la santità del martire vi ha lasciato. La croce di Cristo piantata nella storia ne è la gloriosa dimostrazione, come lo è la bara di padre Fausto «costruita col legno di mogano che ho piantato qui in Arakan», per usare le parole del suo testamento. Proprio per questo egli continua a testimoniare indirettamente la sua carità sia attraverso la Fondazione a lui dedicata, sia attraverso l’associazione “Non dimentichiamo padre Fausto” che ha sede proprio in quel paese di Santa Maria Hoè da cui è sbocciata la vita di Fausto Tentorio. Egli, però, continua a vivere soprattutto in unione a quel Signore che ha tanto amato e seguito. È per questo che vorrei concludere col bellissimo dialogo che un filosofo cristiano dell’Ottocento, il danese Søren Kierkegaard, ha immaginato nel suo Diario tra Dio e il suo “testimone” (non dimentichiamo che la parola di origine greca “martire” significa appunto “testimone”): «Quando il testimone della verità arriva alla morte, dice a Dio: Grazie anche delle sofferenze che mi hai dato. Grazie a te, infinito amore! Ma Dio gli risponderà: Grazie a te, amico mio, per l’uso prezioso che ho potuto fare di te!».