Specie protetta, dicono (e scrivono) dei tennisti. Vero in parte. Lo sono i più forti, dieci, quindici in tutto. Gli altri fanno vita da gregari, né più né meno, e come tali vengono trattati. «Da numero 50 del mondo guadagno sei volte meno del numero 50 del golf», assicura Paolo Lorenzi, che l’ultima Davis ha presentato al pubblico italiano. Il tennis è classista, si potrebbe riassumere, pescando qui e là fra le molte cose giuste e sbagliate che si dicono. E lo è anche nelle questioni legate al doping, dato che di questo si parla. È nato così, il nostro sport: gioco da re e cortigiani, e non ha mai abiurato. Si è solo professionalizzato, su larga scala, e molto più di altre discipline. Restano però gli spogliatoi per i forti, e quelli con le mattonelle andanti per chi forte non lo sarà mai. E se c’è da confessare qualcosa che non va, si fa finta di essere in ritardo con il comunicato e si offre il microfono al peccatore, in modo che sia lui il primo ad ammettere, e a scusarsi, se può. A patto, però, che sia un campione. Maria Sharapova di queste protezioni ha largamente approfittato nella sua pubblica ammissione di lunedì scorso, confessando di essere finita nella rete del doping, meno del perché le sia capitato. Sul primo punto è stata abbastanza circostanziata, né avrebbe potuto fare diversamente. «Mi hanno beccata», la sintesi della sua prolusione. Sul secondo ha preferito girarci intorno. «Prendo il Mildronate da dieci anni, e non sapevo che contenesse Meldonium. La mia famiglia ha problemi di salute, collegati al diabete, e io sono a rischio». Il Mildronate è un farmaco prodotto in Lettonia e venduto solo nei Paesi dell’Est. Ha effetti coprenti, nel complesso. Cioè rende più difficile seguire le tracce di altre attività dopanti. L’antidoping lo ha posto al bando dal primo gennaio di quest’anno, offrendoci involontariamente una dimensione del ritardo con cui i paladini dello sport pulito viaggiano rispetto ai maligni scienziati del doping. Un decennio. Se vi sembra normale, provate a immaginare quanti atleti, oggi, potranno essere considerati dopati domani. Ciò che viene concesso a Maria Sharapova è dunque in esclusiva. Per gli altri, nisba, si procede a spintoni, come in tutti gli sport. Ma siamo, come si vede, sul piano formale. Chi avesse dubbi invece su quello più sostanziale, e ritenesse che anche per gli accertamenti, la vigilanza, l’educazione, e - ovvio - l’accertamento delle colpe, i tennisti meritino di essere considerati una “specie protetta”, allora più che al tennis (alle sue strutture, alle associazioni, ai tornei) dovrà rivolgersi direttamente alla Wada, World Anti-Doping Agency, quelli dei “dieci anni di ritardo”. All’Agenzia il tennis si è affidato ormai da tempo (2009), investendola della vigilanza complessiva su giocatori, medici, e tornei. Atp e Wta, le associazioni dei tennisti, delegarono a suo tempo l’Itf, la federazione internazionale tenutaria dei tornei del Grande Slam, che per qualche tempo provò a farcela con le sue forze, per poi affivuoi darsi in toto alla Wada, di cui ha sposato il regolamento, e operare al suo fianco. Ma il tennis non ha gli stessi controlli di altri sport, e questo è un fatto. Circa 3000, ogni anno. Il ciclismo, per dire, ne ha sei volte di più. Specie protetta, dunque? Mettiamola così… Il tennis costa alla Wada più di ogni altro sport e i motivi sono semplici. Il tennista lo devi rintracciare per il mondo, se lo sorprendere e avere la certezza che il controllo effettuato abbia una qualche validità. Se la Wada desse appuntamento ai soli tornei del Grand Slam, addio effetto sorpresa, e soltanto gli stupidi cadrebbero nella rete (a patto che non sia già sufficientemente stupido doparsi). Ai tennisti non a caso viene chiesta la rintracciabilità, e fra i molti squalificati dell’ultimo periodo (su tutti, il caso Cilic, poi vittorioso agli Us Open dopo la squalifica) non sono pochi gli accusati per non essersi resi reperibili. La prassi piace pochissimo ai giocatori, ma la gran parte ha finito per accettarla. «Se voglio avere un mio momento intimo, privato », ci raccontava una tennista, «devo telefonare e dire dove sono, che equivale a dire con chi sono, con tutte le conseguenze del caso». L’antidoping mira alla castità? Non è questo il punto, ma così vanno le cose. E poi, il controllo dei tennisti avviene per singolo caso, e i costi sono alti. Oltre mille euro per ogni test. Il che vuol dire che negli sport di squadra (un esempio? Ma sì, il ciclismo…) con un solo test verifichi venti atleti, un intero team, cinquanta euro per atleta. Nel tennis, venti atleti testati pesano ventimila euro sul bilancio dell’Agenzia. Più le spese di viaggio e di soggiorno di chi quei test è chiamato a condurre. «Mi sorprendo, e mi capita spesso, che al termine di un match non vi sia qualcuno pronto a testarmi», ha detto una volta Federer, e la frase è stata riadattata in non pochi artico- li, a ribadire come il tennis non faccia il proprio dovere. Ma dopo otto anni a capo del Board dell’Associazione Giocatori, Federer sa bene come stanno le cose. E dunque, secondo voi, ce l’aveva con il tennis, o con l’antidoping? In un’altra occasione il campione svizzero precisò di non svolgere più di quattro o cinque test ogni anno, e di considerarli davvero troppo pochi. Più o meno lo stesso disse Andy Murray, aggiungendo però che molto di più doveva essere fatto anche sul piano della ricerca scientifica. Infine, la Wada è indietro anche sul reperimento dei dati utili al completamento dei passaporti biologici dei tennisti. Tutto questo, assai più delle “protezioni” che si vogliono offrire alla specie tennistica, fa del tennis uno sport meno controllato di altri. Vale la pena aggiungere che, negli anni, sono cadute molte delle “scuse” che il tennis (proprio lui in questo caso) aveva accampato sulla sua natura. «A che cosa volete che serva il doping, in uno sport che somma leggerezza ad agilità, i tocchi alla tattica?». Oggi il tennis abbonda di muscoli e potenza, dove di “tocchi vellutati” se ne vedono sempre meno, e per vincere un match sui cinque set (nel quale, dicono i test, il dispendio è pari solo alla maratona) occorrono riserve infinite di energia. Dunque, il tennis è ormai uno sport dove il doping può fare la differenza, e nel quale le chiacchiere su quello o quell’altro (anche al femminile) si sprecano. Alla Wada, con il supporto delle organizzazioni del tennis, il compito di tenere la barra a dritta. E anche quello di ridurre il gap fra doping e anti-doping, fra scienza e burocrazia. Nel mentre, prendiamo pure atto dei risultati raggiunti: il caso Sharapova, alla fin fine, viene a dirci che i campioni non sono esenti dal comportarsi come si deve, anche se viene loro concesso un microfono per scusarsi. E il caso Odesnik, un oscuro tennista americano caduto di recente per la seconda volta nelle maglie dell’anti-doping (squalifica a vita), appare consolante per il fatto che abbiano continuato a “tracciarlo” senza dimenticarsene dopo la prima condanna. Nomi importanti ve ne sono stati, da Mats Wilander (cocaina) a Mariano Puerta (subito dopo la sua finale al Roland Garros 2005), allo stesso Cilic. Un centinaio in tutto, da che il doping si è cominciato a combatterlo. Pochi? Forse sì, ma l’importante, visto che ci sono di mezzo delle persone, è che siano giusti.