Agorà

Teatro. Tennesse Williams, la tragedia in una stanza

Fulvio Fulvi martedì 24 ottobre 2023

Francesco Sferrazza Papa e Valentina Picello in una scena di "Parla come la pioggia"

Sono tragedie rimosse dalla memoria, gli atti unici scritti da Tennesse Williams prima della conversione al cattolicesimo (avvenuta nel 1968) e del successo planetario, teatrale e cinematografico, dei suoi capolavori Un tram che si chiama desiderio, La rosa tatuata e La gatta sul tetto che scotta.
Cinque di questi lavori, della durata “bruciante” di circa 20 minuti ciascuno e quattro finora inediti in Italia, vengono proposti in un toccante “collàge” da una produzione del Teatro Franco Parenti di Milano in cartellone fino al 5 novembre. Sciabolate in rapida sequenza dove la speranza per le coppie protagoniste si affaccia appena, o si nasconde del tutto dietro un «cielo bianco come il latte». Tragedie chiuse in una stanza che sembra non avere vie di fuga per gli “ultimi” o i borghesi vittime inconsapevoli che ci si dannano dentro, sconvolti tra desideri e ossessioni.

Le storie, benché scritte nel periodo che va dall’inizio degli anni Quaranta fino ai Cinquanta, sono di un’attualità sconcertante. Eccone quattro, che potrebbero essere ambientate anche ai giorni nostri in una città qualsiasi dell’opulento Occidente.
Mentre gioca sui binari della ferrovia tra il Mississipi a l’Alabama una bambina racconta a un amico adolescente come la sorella morta le abbia insegnato ad adescare gli uomini per poter sopravvivere (Questa proprietà è condannata, 1946, conosciuto anche con il titolo Questo è un luogo proibito, ma anche con Questa è la ragazza di tutti, secondo la trasposizione per il grande schermo che ne fece Sidney Pollack nel 1966). In un appartamento borghese di New York marito e moglie di ritorno da una festa litigano per futili motivi nell’inutile tentativo di salvare il loro matrimonio ormai logorato (Ogni venti minuti, 1938). All’interno di una casa in un palazzone alla periferia di una metropoli industriale (forse Detroit) due giovani coniugi emigrati dalla campagna, lui ex boscaiolo mezzo ubriacone, sono alle prese con i pianti notturni del loro neonato, la monotona vita quotidiana e le paghe da operai che non bastano per andare avanti (Il figlio di Moony non piange, 1941). Nel quartiere canadese di New Orleans una madre rigida e “normativa” si ostina a non accettare l’omosessualità del figlio che alla fine, disperato per uno stupro subìto da uno sconosciuto, si dà fuoco nella sua camera con un accendino (Autodafé, 1941).
Legati tra loro da un filo logico, i drammi del “poker americano” firmato da uno dei più grandi drammaturghi del Novecento, vengono messi in scena in una delle sale senza palcoscenico della struttura teatrale di via Pier Lombardo, una scelta fatta dal regista Andrea Piazza proprio per favorire la partecipazione più diretta degli spettatori a un’azione scenica carica di emotività dall’inizio alla fine. Il titolo dello spettacolo (i testi originali sono tradotti senza apportare tagli da Masolino D’Amico), è preso dall’ultimo atto del “collàge”: Parla come la pioggia e lascia che io ti ascolti (1953), nel quale un uomo e una donna, dalle «facce giovani e devastate come quelle di bambini in un Paese affamato», due che si sono riconosciuti per la loro fragilità, intrecciano con struggenti monologhi le loro intime e poetiche “litanie d’amore”, unica via di riscatto oltre all’assegno di disoccupazione.

Nell’America degli “anni d’oro” vista da Tennesse Williams, dominano la solitudine e l’impossibilità di amare - e di essere amati - perché schiacciati da un mondo che pensa solo al profitto. Per i più fragili, milioni di americani, la vera ripresa dopo la Grande Depressione non è altro che una chimera dove la giustizia sociale e talvolta persino la tenerezza, sembrano impraticabili.
Tutti i ruoli femminili sono interpretati con intensità da una vibrante Valentina Picello, tutta anima, corpo e voce, che va venire i brividi nei panni della signora Duvenet, la mamma di Eloi in Autodafé, quando si accorge che il figlio si è tolto la vita e ormai non può fare più niente per impedirlo, rinchiusa com’è nel suo «sciocco paradiso» di regole. Recita come in equilibrio continuo, sopra la follia dei personaggi, dentro e oltre il loro realismo intriso di poesia. Sempre credibile e trepidante anche Francesco Sferrazza Papa, che la direttrice artistica del Teatro Parenti, Andréee Ruth Shammah, aveva chiamato nel 2020 per lo spettacolo itinerante Stasera si può entrare fuori e che con l’opera di Tennesse Williams aveva avuto a che fare, nel ruolo di Tom de Lo zoo di vetro allestito dal Teatro Stabile d’innovazione Out-Off per la regia di Massimo Greco nel 2013.

E, infine, la scenografia di Parla come la pioggia, fatta di tavole che diventano pareti, seggiole e comodini, libri, fotografie, dischi, collane e orecchini di bigiotteria, lumi d’antan, un cavallo a dondolo, una pistola, una bibbia aperta sui salmi Pianto di un perseguitato e Appello alla giustizia di Dio, e altri oggetti di ordinaria quotidianità lasciati sparsi sul pavimento. Così, al termine dello spettacolo gli spettatori, uscendo dalla sala, possono passarci in mezzo, come in un percorso che li fa sentire ancora dentro quelle tragedie di tutti giorni, dell’America di allora, della vita dell’autore, della finzione scenica, e forse anche, simbolicamente, della nostra realtà di oggi. Una scenografia che costituisce il Museo delle Solitudini Raccolte introdotto da un cartello con una frase di Tennesse Williams che mette tutti di fronte alle proprie responsabilità sociali ed umane: «quando tante persone sono sole è imperdonabilmente egoista rimanere soli da soli».