Intervista. L’eredità di Tenco 50 anni dopo. Omaggio di Corsi
Luigi Tenco, morto a Sanremo 50 anni fa, e un suo manoscritto in mostra al Teatro della Tosse di Genova
«Il mio amico Bruno Lauzi mi diceva sempre: Luigi prima di essere un grande compositore era un grande musicista. Questo mi ha guidato». L’accento genovese, la voce ironica, Armando Corsi, uno dei più grandi chitarristi italiani che ha collaborato con Ivano Fossati e Paco De Lucia, pubblica oggi Luigi (Orange-Reconds, euro 15), il primo album acustico dedicato alla produzione di Tenco nel cinquantesimo anniversario della sua morte. Dodici i brani suonati alla chitarra classica da Corsi, che li produce con Raffaele Abbate e Roberta Alloisio, la voce di Genova che dà dolcezza femminile a capolavori quali Mi sono innamorato di te, Vedrai vedraie Ciao amore ciao. In più il disco contiene anche un particolare omaggio che Giorgio Gaber dedicò all’amico negli anni ’80, cantato dalla moglie Ombretta Colli in una produzione teatrale, nell’arrangiamento di Franco Battiato e mai riproposto. Corsi ha presentato l’album al teatro della Tosse di Genova, dove è stata allestita una mostra su Tenco che espone la sua macchina da scrivere, il sax, spartiti, foto, locandine, rare edizioni dei suoi dischi e i premi vinti, per concessione della famiglia Tenco e di Sandro Amicone. E stasera l’artista sarà in concerto con la Alloisio al Teatro Pasolini di Cervignano del Friuli (Udine).
Cosa si scopre in questo disco su Tenco?
«La sua vena altamente musicale, oltreché poetica. Per chitarra e voce non è mai stato fatto. Melodicamente resta Luigi, armonicamente è tutto sconvolto, con un tocco mio e valorizzato dalla splendida voce di Roberta Alloisio. Fra poco compio 70 anni e in questo disco i miei percorsi di vita e arte si intrecciano, e intrecciano quelli di Tenco. La musica è vita. Ho sempre ragionato così».
Lei ha conosciuto Tenco?
«Tenco per me è stato uno sconvolgimento. Avevo 14 anni ed abitavo alla periferia di Genova. Prendevo il tram per andare ad ascoltarlo in un bar del centro dove suonava e cantava insieme ai fratelli Reverberi, Gian Franco e Gian Piero, conosciuti per avere fondato la scuola genovese dei cantautori. Un gruppo di amici dal talento straordinario».
Che Genova era quella degli anni 60 in cui nacquero i cantautori?
«Devo dire che sono stato testimone di una grande epoca, ho avuto la fortuna di vivermi la coda della buona musica. Purtroppo oggi è tutto commercio e industria senza valori. Quando avevo 10 anni, mio padre la domenica mi portava in centro tra i vicoli di Genova, dove c’erano due o tre osterie in cui suonavano dei dopolavoristi molto bravi. Io stavo in un angoletto, cercavo di rubare i segreti del mestiere. Tornavo a casa, non mangiavo, mi mettevo a provare con la chitarra che mi aveva regalato mio padre e mia madre si arrabbiava».
Crescere musicalmente nella stessa Genova di Tenco, Paoli, Lauzi era diverso rispetto a oggi?
«Si faceva la gavetta, quella vera. Andai a scuola di musica, a 13 anni vinsi il Festival nazionale per chitarristi a Terni e iniziai a suonare. In via Gramsci nell’angiporto c’erano 30 locali: ti presentavi, avevi la possibilità di suonare dalle 9 di sera alle 3 di notte e guadagnavi 1000 lire al giorno. Ho visto di tutto e di più, ho vissuto quel mondo cantato da De André, prostitute, papponi, ho imparato a vivere».
Che cosa le piaceva di Tenco persona?
«Amo ripetere questa sua frase che ne sintetizza il carattere: “Canterò finché avrò qualcosa da dire e quando nessuno vorrà più ascoltarmi bene, canterò soltanto in bagno facendomi la barba, ma potrò continuare a guardarmi nello specchio senza av- vertire disprezzo per quello che vedo”».
E di De André, Lauzi, Fossati?
«Avevo un rapporto buono con De André, era molto colto. Ero molto amico di Bruno, abbiamo scritto insieme Sia benedetto il samba. Lauzi a me piaceva molto come artista e come uomo. Con Fossati abbiamo registrato Rindberg e i primi due dischi dal vivo Teatro Ponchielli Buontempo e Carte da decifrare dove ho dato molto e ho avuto molto».
Ed ora a che punto è la musica italiana?
«Nel nostro dna abbiamo una grande fortuna: la melodia. Purtroppo si va a scopiazzare quello che è stato già fatto ed ora l’immagine è una componente in più. Io sono sempre dell’idea alla contadina, che la prima idea che ti viene in testa è quella giusta. Il mio primo disco da autore, Itinerari, lo suonavo quando mia madre lavava i piatti e lei lo cantava a suo modo. Per me era un segnale».
Lei, genovese, ha anche una connessione musicale forte con Napoli.
«Ero molto amico di Pino Daniele. Ha creato un genere, fatto sì che la musica napoletana, che per me è la più bella del mondo, fosse conosciuta in modo diverso. Ora collaboro con Fausto Mesolella: nei nostri concerti io suono la musica napoletana e lui quella genovese, melodie unite dal Mediterraneo».