Dibattito. È tempo di pensare "transdisciplinare"
Il monumento ad Antonio Rosmini a Milano
«Ho dovuto dunque eliminare il sapere per far posto alla fede», è la famosa espressione rintracciabile nella Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion puradi Immanuel Kant: la metafisica si separa così dalla scienza e transita in ambito etico- religioso. Lo schema è preciso: la ragione pura si applica al mondo dei fenomeni e non li oltrepassa, perché è 'limitata' dallo spazio-tempo, suoi trascendentali; il 'noumeno', cioè la cosa in sé (oggetto della metafisica tradizionale) diventa un postulato della ragione pratica, attingibile dall’esperienza morale. Esultano i credenti tutti, per l’autonomia della fede, omaggiata dal padre dell’Illu-minismo. E però la fede di cui si tratta ha una figura diversa dalla fede cattolica. Perciò, almeno i cattolici (parliamo di filosofi e teologi), non dovrebbero esultare tanto ingenuamente. Non lo fece, infatti, uno dei più grandi intellettuali cattolici dell’Ottocento italiano, Antonio Rosmini (proclamato beato il 18 Luglio 2007), chiamato stranamente il 'Kant italiano' (fu il mito creato da Spaventa e Gentile). Riferendo sulla matrice luterana del progetto critico di Kant, nel Nuovo Saggio sull’origine delle Idee, Rosmini «per far posto alla fede, istituisce il carattere oggettivo e infinito del sapere della ragione », scoprendo l’innata Idea dell’essere, presente nell’intelletto umano, apertura indeterminata su tutto l’essere e, perciò, principio di intellegibilità della realtà tutta, visibile e invisibile. Insomma, sulla scia della fides quaerens intellectum di Anselmo d’Aosta, per il grande Roveretano, la fede non elimina il sapere e affatto lo limita, piuttosto aiuta e perfeziona la ragione e la filosofia (referente paradigmatico di tutti gli altri saperi, anche di quelli scientifici). La fede cattolica vuole che il sapere della ragione e della scienza avanzi e si ingrandisca in piena autonomia e libertà. E lo vuole per potersene avvantaggiare umanamente Purtroppo, dalla dogmatica kantiana non si scostano di un palmo tutti quelli che sembrano 'avere ragioni da vendere' nel separare fede e scienza, credere e sapere. Mi riferisco all’intervento di F. Totaro su 'Avvenire', a supporto della posizione del premio Nobel Giorgio Parisi. L’adagio classico diffuso anche in menti filosofiche e scientifiche nobili non fa una grinza: «La fede vuole credere e, perciò, non deve sapere, la ragione per sa- pere non deve credere». L’autonomia della fede è in realtà implicita all’avvento dell’autonomia della ragione separata dalla fede, per essere sé stessa, ragione pura, libera da ogni tutela, secondo il motto illuministico: sàpere aude, sappi servirti della tua ragione, al cui tribunale critico tutto deve passare come un tritacarne, anche la religione ricondotta 'nei limiti della pura ragione'. Sono peraltro tanti gli scienziati cattolici disposti ad ammettere (e a giurare sulla sacra Bibbia!), con evidente ingenuità (filosofica), che la loro fede cattolica non c’entra nulla con l’indagine e la pratica scientifica, con le scoperte dei loro esperimenti in laboratorio: «quando facciamo scienza siamo scienziati e basta», dicono. L’ingenuità rimanda alla mancata autoappropriazione di come funziona la mente umana, quando è impegnata a conoscere qualcosa, direbbe B. Lonergan, scienziato, filosofo e teologo suggerendo di leggere Insight, opera di epistemologia in cui presenta il 'metodo trascendentale', quale via immanente in ogni ricerca scientifica (di qualsiasi tipo e in qualsiasi campo) per acquisizioni cumulative e progressive. Avrebbe potuto spiegarlo Benedetto XVI nella Allocuzione della (impedita!) visita all’Università della Sapienza: «filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro 'senza confusione e senza separazione'». Il riferimento è a Calcedonia, ma espressamente anche a san Tommaso: ognuno conserva la propria identità, perché la filosofia non può essere attratta fideisticamente, quasi assorbita dalla fede, mantenendo la propria libertà e responsabilità; tuttavia, la filosofia «non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa». Non la filosofia e nemmeno la scienza, vorremmo sostenere. È una via interessante per verificare la teoria rosminiana del sintesismo che appare capace di superare sia l’estrinsecismo separante di fede e ragione, e sia l’intrinsecismo confusionario: è nel sintesismo rosminiano che possiamo immaginare la possibilità di un 'essere-in' di ciascuna delle forme dell’essere nell’altra, restando assolutamente sé stessa, senza confusione e senza separazione, ma 'dentro', intimamente innestata. In linea con tutta la tradizione cattolica (che ha sempre parlato di un esercizio sanante ed elevante della fede rispetto alla ragione umana in quanto tale) la prospettiva metodica di Rosmini, dopo aver distinto adeguatamente tra ragione e fede, è quella di unire, mostrando in atto la fecondità dell’unione 'salvifica' della fede con la ragione: in un circolo solido che aiuta la ragione e non impoverisce la fede, anzi giustifica e dona credibilità alla fede, perché si mostra alla ragione «siccome una maestra, che le dispiega innanzi, e le consegna i segreti della sapienza», sicché «Il ragionamento si può anche dir figliuolo della fede», «guardia continua dell’umana ragione», dirà nella Teodicea. E queste resterebbero solo affermazioni astratte, se il Rosmini teologo e filosofo non proponesse un esperimento riuscito nella sua Teosofia, dove dice di poter trattare la verità trinitaria quale «proposizione scientifica come le altre », senza togliere al dogma il suo mistero e la sua trascendenza (la fede è fede e resta tale). L’emanatismo dei sistemi unitari, antichi e moderni (Plotino e Hegel) è un errore filosofico di grande portata perché non dà soluzione al problema per eccellenza che riguarda l’essere primo: «come si concilii la perfetta unità dell’essere primo con quella sorte di molteplicità che gli è necessaria acciocché sia pieno, attivo e causa delle cose». Tale problema presenta una antinomia «che ha fatto delirare [...] la filosofia in tutti i secoli, a cui Cristo ha soddisfatto, ma rivelando il mistero». In questo senso non può meravigliare che la Trinità delle persone divine stia «nel fondo della Teosofia come misterioso fondamento». Vale la pena gustare il dettato rosminiano dell’Antropologia soprannaturale: «per trovare qual sia il vestigio più completo della Trinità nell’universo […] In primo luogo osservai l’essere creato sotto tutte le sue forme e modi possibili. Poi cominciai a classificare queste forme e questi modi e riducendoli di classe in classe […] Ora questa operazione mi condusse a rinvenire tre forme primitive e originali, inconfusibili fra di loro, che riconobbi esser le tre forme, di cui era informato l’universo, ossia i tre modi dell’essere creato». Così il mistero trinitario rivelato entra, come ipotesi, in filosofia, non perché venga razionalizzato il mistero, ma per rilevare quanto la fede aiuti la ragione a risolvere i propri problemi da sé stessa. Ecco la sintesi in Introduzione alla Filosofia: «La dottrina dunque della Trinità, la dottrina cioè dell’essere uno e trino profondamente, interamente scioglie quel problema dallo spirito umano sempre preposto come un’enimma a sé stesso, vinto non mai: comunica all’uomo la dottrina dell’essere in tutte le sue forme. La dottrina dunque dell’augustissimo de’ misteri discende dal cielo come una cupola d’oro che si colloca in sull’edificio dello scibile naturale […] Ecco il soprannaturale della scienza necessario altrettanto che il soprannaturale della vita». Mentre ancora aspettiamo di capire cosa avesse in mente di Dio Laplace quando disse «per me Dio non è nemmeno un’ipotesi », il 'Kant italiano' pone addirittura la Trinità come un’ipotesi filosofica e scopre le tre forme dell’essere (reale, ideale, morale), insieme al sintesismo filosofico, che, se proprio non intendiamo male, è traccia della pericoresi ( circuminsessio) trinitaria. Potrebbe esserlo anche l’Entenglement dei meccanici quantistici e degli astrofisici? Ci vuole immaginazione! Nel frattempo, leggiamo in Helgoland di Carlo Rovelli che «l’entenglement è una danza a tre». E nessuno potrà vietarci di procedere per analogia, la via bella per scoprire le somiglianze vere in dissomiglianze ancora più grandi, osando l’impresa, oggi indispensabile, della transdisciplinarietà dei saperi, alla quale invita Papa Francesco in Veritatis gaudium, dove nel proemio cita opportunamente Rosmini.