«La battaglia in quota è innanzitutto una questione di trasporti». Mai come durante la Prima Guerra Mondiale, il cui fronte italiano correva per cinquecento chilometri in montagna, fu azzeccata l’affermazione del generale austriaco Moritz von Lempruch, comandante delle truppe impegnate sull’Ortler. Fin dai primi giorni di combattimento, infatti, fu chiaro come l’occupazione delle cime avrebbe rivestito un’importanza decisiva sulle sorti del conflitto e a questo obiettivo gli eserciti contrapposti destinarono uomini e mezzi in gran quantità. Ben presto, come scrive Diego Leoni in La guerra verticale, «la montagna diventa un imprevisto e rutilante cantiere » dove lavorano migliaia di soldati-operai. Si scavano trincee e gallerie, si costruiscono veri e propri villaggi arroccati alle pareti, si tracciano strade e mulattiere, si innalzano tralicci per l’elettricità e pali telefonici, si stendono chilometri e chilometri di condotte per gli acquedotti che dalle sorgenti portano l’acqua ai soldati. Insomma, come ricorda Giulio Douhet nel suo Diario critico di guerra, gli eserciti sono trasformati in «immense officine di costruzione e di distruzione». Per mantenere in efficienza queste fabbriche d’alta quota era necessario rifornirle quotidianamente di viveri, materiali e munizioni in un territorio, la montagna, «feroce e implacabile», annota sempre Leoni. Che ricorda come, per «nutrire giornalmente un’armata», generalmente composta da 200mila uomini e 30mila quadrupedi, «occorrevano almeno 1.400 quintali di pane, 480 quintali di carne, 500 ettolitri di vino, 2.400 quintali di fieno e avena, da trasportare con 373 autocarri».Una teleferica in alta Val Leogra durante la Grande GuerraIl fabbisogno giornaliero di una brigata alpina (viveri, attrezzature, vestiario e munizioni) era, invece, di circa 200 tonnellate. Tutto materiale che, durante il primo anno di guerra, fu trasportato a dorso di asino o di mulo (allo scopo, nella zona dell’Adamello, l’esercito requisì tutti i quadrupedi disponibili e ne importò anche dall’estero), ma anche dai prigionieri e dai civili (anche donne) mi-litarizzati. Insomma, per dirla con il fante Alfredo Ortali, impegnato nella zona del Col di Lana, fu «una fatica enorme». Che richiese tempi lunghi, considerando che, scrive sempre Leoni, «un animale da soma poteva percorrere un chilometro in 1520 minuti, che però diventano 60-80 su terreni impegnativi, a cui si dovevano aggiungere i tempi di riposo». Fu così che negli alti comandi maturò la convinzione circa la necessità di dotarsi di mezzi di trasporto più efficaci e veloci, capaci di percorrere grandi distanze e superare importanti dislivelli in poco tempo. La vera, grande novità del secondo anno di guerra, il 1916, fu allora la teleferica. Ancora una volta gli austriaci partirono in vantaggio. Forti dell’esperienza della guerra d’occupazione della Bosnia-Erzegovina del 1878, che fu combattuta anche in montagna e di un’industria dei trasporti a fune, legata alle estrazioni minerarie, i soldati dell’Imperatore cominciarono a realizzare impianti per il trasporto in quota di viveri, munizioni, vestiario e anche uomini. Anche tra gli italiani si fece strada l’idea che far “volare” le merci sopra le montagne, anziché trasportarle a spalla o a dorso di mulo, fosse più redditizio. Così, nell’estate del 1916, all’arma del Genio fu aggiunta una nuova specialità: i teleferisti. Annota il generale Luigi Lastrico ne L’arma del Genio nella Grande Guerra ( Tipografia Regionale - Roma 1940): «Nell’estate del 1916 venne formato un plotone teleferisti al quale, nello stesso anno, se ne aggiunsero altri dodici di forza varia a seconda delle zone d’impiego e che furono assegnati alle armate e alle grandi unità equivalenti». Diciotto mesi dopo, nell’ottobre 1917, scrive Luciano Berté su www.cimeetrincee.it, «il Regio Esercito italiano aveva operativi 564 impianti teleferici i quali coprivano una distanza totale pari a 614.315 metri». Le teleferiche in uso erano di tre tipi, ricorda il cultore di storia militare Claudio Gattera di Recoaro Terme, autore di una guida escursionistica del Pasubio: sistema a tre funi, che comprendeva il tipo “continuo” e il tipo “a va e vieni”; sistema “a fune unica mobile”; sistema “monofune fisso”. «Le capacità dei carrelli – specifica Gattera – potevano variare dai 50 chili ai 20 quintali, la potenzialità oraria dipendeva naturalmente dalla lunghezza della linea». Come annota, invece, Leoni, riprendendo uno studio del febbraio 1917 del 5° Corpo d’armata, «il movimento di 6mila quintali, che una teleferica avrebbe garantito giornalmente (per 20 ore al giorno con qualche decina di militari specialisti e non più di cento uomini di fatica), avrebbe invece richiesto 400 camion con mille automobilisti o 1.500 carrette con 2mila soldati e 3mila quadrupedi». Il vantaggio era evidente e così, nel corso del conflitto, furono investite sempre nuove risorse per impiantare questi mezzi di trasporto a fune. Nel corso dei tre anni del conflitto, scrivono Luigi Longhi e Antonio Zandonati in Teleferiche dell’11ª Armata austro-ungarica. Dall’Adige al Brenta( Museo storico italiano della Grande Guerra), l’Armata italiana costruì 2.170 impianti, che coprivano una lunghezza complessiva di 2.300 chilometri, trasportando 3.800 tonnellate di materiale all’ora. Nello stesso periodo, gli austriaci realizzarono 410 teleferiche, per una lunghezza di 750 chilometri e una potenzialità oraria di 2.175 tonnellate. Tra gli indubbi vantaggi delle teleferiche (che in Italia, scrive il mensile dell’Ana L’Alpino, furono realizzate principalmente da tre aziende: la Ceretti e Tanfani di Leini, in provincia di Torino, ancora oggi in attività, la Badoni, Bellani e Benazzoli di Lecco, chiusa nel 2010 e la Luigi Spadaccini di Milano, oggi confluita nel gruppo Redaelli col nome di Teci), ci fu anche il fatto che queste «macchine volanti» fossero, scrivono Longhi e Zandonati, «sostanzialmente insensibili ai più gravi fenomeni metereologici». Come il «terribile inverno del 1916», che invece mise a dura prova uomini e animali. Una resistenza molto apprezzata dai comandanti, come il generale Quintino Ronchi, alla testa delle truppe italiane sull’Adamello, che nel suo diario di guerra scrisse un vero e proprio elogio alle teleferiche: «Si può affermare che solo con esse e per esse, è stato possibile mantenere l’occupazione di determinate zone, o svolgere operazioni, o protrarre difese».