Il 2009 è l’anno delle celebrazioni per i trent’anni dal ritorno dell’ayatollah Khomeyni in patria e dalla nascita della Repubblica islamica. A dispetto di invasioni, guerre, embarghi, minacce, il sistema basato sul coinvolgimento del clero sciita nella gestione diretta del potere, seguendo l’ideologia che l’imam della rivoluzione aveva immaginato negli anni di esilio e imposto una volta tornato in patria, sembra più forte che mai. Dopo il tentativo di liberalizzazione e democratizzazione progressiva compiuto dal presidente riformista Mohammad Khatami fra il 1997 e il 2005, la reazione degli antiriformisti ha infatti favorito l’avvento di una nuova generazione di islamisti radicali e di neoconservatori. Ma essi non si sono limitati a rilanciare gli slogan tipici dei primi anni della rivoluzione e gli eccessi di zelo nel controllare la vita privata dei cittadini iraniani (vestiti, feste private, velo non appropriato per le ragazze); con il presidente ultra-radicale Mahmud Ahmadinejad è iniziata una vera e propria trasformazione nel tradizionale sistema di potere post-rivoluzionario. L’ascesa di pasdaran, funzionari dei servizi di sicurezza, bassij e seguaci delle scuole religiose conservatrici – i quali hanno occupato in massa posizioni di potere nevralgiche – ha sbilanciato i rapporti di forza tra le varie correnti e fazioni della frammentata élite politica. L’Iran di oggi è un Paese in cui gli spazi di libertà individuali, di espressione politica e culturale, di manifestazione del dissenso sono marcatamente più ristretti rispetto ad alcuni anni fa. Da questo punto di vista, la rivoluzione non ha avuto successo: se l’ideologia khomeynista puntava a fare di Teheran il difensore «degli oppressi contro gli oppressori » – come ripetuto ossessivamente –, ebbene la realtà è amaramente diversa: oggi il vigente regime è percepito come oppressivo dalla maggior parte degli iraniani. Solo che questo dissenso non può emergere. E non solo viene percepito come repressivo, ma anche come corrotto e inefficiente. Le speranze di ottenere attraverso l’islam la tanto agognata «giustizia sociale» non si sono realizzate: fra la corruzione dilagante, gli sprechi, la precarietà delle condizioni economiche di milioni di iraniani, la mancanza di lavoro, il sottoimpiego intellettuale, gli abusi, le sperequazioni sociali che caratterizzavano l’Iran dello scià non sono del tutto svaniti. Certo, non possono non essere riconosciuti i progressi fatti dal sistema repubblicano in questi trent’anni: miglioramenti sociali, nel campo dell’istruzione e in particolare di quella superiore, della sanità, del progresso tecnologico. Oppure il fatto che il velo sia stato spesso – soprattutto nei primi anni e negli ambienti periferici – una sorta di lasciapassare per l’entrata nello spazio pubblico dell’elemento femminile, altrimenti escluso. Nello stesso tempo si è avuta una crescita della società civile e della consapevolezza politica dell’essere cittadini, così come un avanzamento di gruppi e ceti sociali fortemente marginalizzati in una società marcatamente classista come era quella iraniana. Si tratta di miglioramenti ancora più notevoli se si pensa a tutte le traversie che il Paese ha dovuto affrontare in questi decenni e alla mancanza di aiuti internazionali. Né deve essere dimenticata la crescita del peso geopolitico del Paese: nonostante i velleitari tentativi di 'cambio di regime' e le politiche di isolamento attuate dagli Stati Uniti dagli anni Ottanta in poi, l’Iran è un Paese cardine della regione. Anzi, proprio in virtù degli errori delle ultime amministrazioni di Washington, il suo peso geopolitico è andato aumentando, e non diminuendo.A dispetto di sanzioni e minacce, l’Iran è altresì riuscito a portare avanti con successo il proprio programma nucleare: ora dispone di migliaia di centrifughe per l’arricchimento dell’uranio e non si vede come la comunità internazionale possa privarlo di questa tecnologia. La dirigenza iraniana è compatta nel sostenere la natura esclusivamente pacifica di questo programma e l’assenza di ricadute in campo militare; tuttavia è evidente che Teheran oggi possiede molte delle conoscenze teoriche per arrivare a realizzare con successo un programma nucleare militare se davvero lo volesse. Anche in questo caso, si tratta di un rafforzamento del peso geopolitico sulla scena internazionale. Eppure, chi conosce – e ama – l’Iran non può non notare lo stridente contrasto fra le aspettative del periodo rivoluzionario e quanto realizzato. La rivoluzione del 1979 fu, come si è visto, un’autentica rivoluzione popolare, che vide la partecipazione di tutte le opposizioni al dispotico regime dello scià: dai sostenitori dell’ideologia islamista ai comunisti, ai liberali, ai nazionalisti, ai socialisti islamici. Khomeyni e i suoi seguaci furono più abili e capaci, riuscendo a mettere una parte contro l’altra e finendo per eliminare ogni altra visione politica. Ma l’avvento del religioso sul politico ha finito per trasformarsi in un boomerang per lo stesso clero sciita e per la religione. Il governo diretto del clero si è rivelato un frutto avvelenato, dato che ha svilito il carisma e il prestigio dei religiosi sciiti. La contaminazione della religione con le pratiche quotidiane del governo e dell’amministrazione ha finito per danneggiare la religiosità di quel Paese, facendo dell’Iran una società in parte postislamica.