Agorà

La ricerca. Medicina, tutti i limiti del taylorismo

GIUSEPPE O. LONGO martedì 26 gennaio 2016
In tempi di revisione della spesa (o spending riviù, come amano dire i nostri amministratori afflitti da provincialismo anglofilo) bisogna risparmiare su tutto, in particolare in ambito sanitario: ed ecco che tornano buone le idee di Frederick Taylor (1856 - 1915), il padre della gestione scientifica dei processi produttivi. L’ingegnere meccanico di Filadelfia era convinto che per ciascun elemento di ogni lavoro esistesse un modo di svolgerlo migliore di tutti gli altri in termini di tempo e di efficienza; perciò si diede a formulare i criteri per individuare questo modo, stabilendo protocolli di esecuzione che assicurassero il massimo profitto. Era poi compito del responsabile di reparto far sì che tutti gli operai si attenessero strettamente ai protocolli. Nel 1911 Taylor pubblicò The Principles of Scientific Management, un libro che fu determinante per la creazione e lo sviluppo dell’ingegneria industriale. Secondo il nostro, «in passato l’uomo veniva per primo, in futuro per primo viene il sistema ». Per fare un esempio, la giapponese Toyota ha applicato il taylorismo alla fabbricazione delle automobi-li, ottenendo di fatto un miglioramento della qualità, l’eliminazione degli scarti e una diminuzione dei costi. Ed ecco che, fors’anche perché Taylor era un esempio vivente di mens sana in corpore sano (fu golfista e tennista a livello nazionale), i medici hanno applicato i suoi principi alla sanità: la cura del paziente deve seguire standard analoghi a quelli delle fabbriche di auto. Così la durata delle visite è stata misurata con il cronometro per stabilirne il tempo ottimale. Per individuare “il modo migliore” di condurre questi incontri è stata poi introdotta una cartella clinica elettronica, in sé molto utile per fornire rapidamente le informazioni sanitarie sul paziente, che tuttavia è diventata il punto di partenza per strutturare le visite: le domande da porre al paziente sono previste rigidamente, quindi è quasi impossibile procedere a colloqui liberi, così importanti, come insegna la “medicina narrativa”, per ottenere notizie sullo stato psicologico del paziente e sul suo punto di vista quanto alla patologia e per stabilire una buona relazione tra medico e ammalato. I dottori sono ossessionati dal ticchettio dell’orologio e l’effetto sui pazienti è molto negativo. In un articolo comparso in questi giorni sul New England Journal of Medicine, Pamela Hartzband e Jerome Groopman raccontano di una signora che si era appuntata alcune domande da porre al medico durante una visita di controllo, ma fu subito bloccata: si potevano considerare solo i punti dell’elenco standard, quindi non c’era tempo per i quesiti personali. Se la signora voleva, poteva prenotare una visita apposita. Certo, alcuni settori della medicina hanno tratto giovamento dai principi di Taylor: per esempio c’è stata una riduzione delle patologie iatrogene o un accorciamento dei tempi d’intervento nei casi di ictus o di infarto. Ma non si può generalizzare il taylorismo a tutto il vasto campo della medicina, per esempio non lo si può applicare a quel fondamentale aspetto che è l’anamnesi, oppure alla sintesi dei dati clinici e di laboratorio che conduce alla diagnosi, oppure alla valutazione del rapporto rischi-benefici di una certa terapia per un paziente particolare. I protocolli possono avere un notevole valore di orientamento, ma quando sono troppo rigidi diventano ostacoli alla diagnosi e alla terapia. Il protocollo formalizzato impedisce al medico di considerare il punto di vista, le preferenze, gli affanni e le aspirazioni del paziente, il quale è un’unità globale e complessa, che arriva davanti al dottore con una sua storia personale e familiare, con un suo carico di preoccupazioni, di speranze e di angosce, che sono diverse da quelle di ogni altro paziente. E già chiamarlo “paziente” è riduttivo, quasi umiliante: si tratta di una “persona”, unica e speciale, e la sua interazione con l’altra persona che è il medico è, o meglio può essere, un momento di scambio ricco e gratificante per entrambi. Una delle promesse del taylorismo applicato alla sanità, cioè un risparmio di tempo che si sarebbe tradotto in un incremento dei momenti che i medici possono dedicare a sé stessi, è stata, a quanto pare, disattesa: i dottori, sottoposti alla pressione del taylorismo e della gestione parcellizzata della pratica medica, appaiono sempre più insoddisfatti e tendono ad allontanarsi dalle corsie e dagli ambulatori: alcuni emigrano nelle aree di ricevimento, altri scelgono la pensione anticipata, altri assumono incarichi di consulenza o gestionali, lasciando ai colleghi il loro carico clinico. La cosa forse più interessante è che i corifei della medicina taylorista, coloro i quali mediante conferenze e articoli ne propagandano l’utilità, anzi la necessità, per sé e per i propri familiari vogliono una medicina tutt’affatto diversa. Una medicina come quella che ciascuno di noi desidera, impersonata da un medico disposto ad elargire il suo tempo senza fretta e a prestare un’attenzione umana e comprensiva. E desiderano una cura (nel senso più ampio del termine) personale, non un protocollo rigido, generico e uguale per tutti. Eppure, negli Stati Uniti, gli studenti di medicina si vedono impartire i principi del taylorismo medico fin dal primo anno, salvo poi scoprire durante la specializzazione che non è vero che esiste un modo migliore di tutti gli altri di procedere alla diagnosi e alla terapia e che quel modo è lo stesso per tutti i casi. I giovani medici scoprono che la cura dev’essere personalizzata e attagliata a ciascun caso, perché le condizioni sociali, familiari e individuali sono quanto mai varie, così come sono specifiche di ogni persona la biologia e la fisiologia. Come si può racchiudere tutta questa diversità in un protocollo rigido e uguale per tutti? Il taylorismo medico presenta molti vantaggi, ma non si può applicarlo indistintamente. Ciò che va bene per le automobili non va bene per le persone. Nel caso della medicina, Taylor aveva torto: anche in futuro l’uomo, non il sistema, deve venire per primo. alla salute