Scenari. Natura, un best seller e tanti dubbi
La vita segreta degli alberi di Peter Wohlleben è stato (continua a esserlo) un best seller internazionale. Solo in Germania, dove è uscito nel 2015, ha venduto 650.000 copie. Successivamente tradotto in mezzo mondo (32 lingue), il libro rappresenta un successo lampante tanto quanto misterioso. Che cosa può avere accalappiato a tal punto i lettori, di questo racconto della vita degli alberi scritto da un signore che dopo anni di esperienza come guardia forestale, è ora a capo di una foresta ecologica? Se l’interrogativo ha senso, è perché a differenza di altri best seller, quello di Wohlleben non possiede alcuna particolare attrattiva, nessuno stratagemma studiato a tavolino per esercitare fascino e catturare apprezzamento. Il racconto scorre - diciamolo pure - anodino, i dati commentati non riportano alcunché di sensazionale.
Vi si racconta essenzialmente di tre cose: di una sotterranea, invisibile rete di mutua solidarietà tra gli alberi; della necessità di considerarli alla stessa stregua di altri esseri viventi, in particolare degli animali (attribuendo dunque agli arbusti un’intelligenza, nonché persino una certa dose di vita interiore); da ultimo, cosa più importante di tutte, si parla della grande lentezza con cui gli alberi crescono, si fortificano, assumono spessore e durata, e tutto ciò nel tempo, e con il tempo. Un libro che è un energico invito a "lasciar fare alla natura", ai tempi ciclici insiti nello scorrere delle cose, invece che a quelli frettolosi imposti, alle stesse cose, artificialmente. La nostra difficoltà di umani nel comprendere gli alberi, starebbe dunque nella calma olimpica e nel ritmo impercettibile (centenario, millenario) del loro agire, e invecchiare. Una lentezza che inficia la decifrabilità del loro alfabeto; ma ecco è sufficiente rallentare, mettersi in ascolto, e molto si capirà, e si imparerà (secondo l’adagio del proverbio argentino «se vuoi sapere di forza e pazienza, scegli la compagnia degli alberi», uguale a quello di un meraviglioso racconto breve di Stevenson, dove un visitatore alieno alla civiltà, si appassiona agli alberi molto più che agli umani).
Un altro libro, in primo piano sulla scena culturale francese e non solo ci parla del mondo vegetale. Lo ha scritto un filosofo italiano, Emanuele Coccia, si intitola La vie des plantes. Une métaphysique du mélange (uscirà in Italia in autunno). Qui la tesi (più ampia) è su una rete di solidarietà empatica che connette insieme gli esseri viventi. Un circuito collettivo dove alle piante spetta il valore paradigmatico da esse offerto in termini di inter-relazione, intimità condivisa (pensando l’intimità, come fece il filosofo Georg Simmel, come un respirare ciascuno "l’atmosfera" di un altro). Qui il coabitare è pensato tra alberi, foglie, arbusti, umani, e anche astri. Il ragionamento di Coccia è ben più seducente e convincente di quello esposto da Wohlleben. Ma entrambi i libri sollevano la medesima domanda. E cioè perché riflessioni di questo tenore suscitino tanta curiosità; perché mai piacciano tanto.
Forse di riflessioni sull’umano ne abbiamo piene le tasche? Forse il bisogno di dare legittimità alla natura si fa via via più urgente, non solo per proteggerla, anche per riconoscerle un nuovo statuto che essa meriterebbe, da sempre? Il 15 marzo scorso, la popolazione Maori, in Nuova Zelanda, ha riconosciuto "personalità giuridica" (ovverosia diritti civili e legali su modello di quelli accordati agli umani) a un fiume (il fiume Whanganoui, terzo di tutto lo Stato quanto a lunghezza). La natura va protetta, da lei moltissimo va imparato, a lei è giusto offrire riconoscimento secondo parametri sinora utilizzati per altro. Ma siamo sicuri che tutto ciò sia un buon segno, sul fronte dell’umano?