Agorà

Ebraismo. Talmud, “mezza festa” non significa mezza gioia ma responsabilità

Massimo Giuliani sabato 7 ottobre 2023

Il matrimonio tra i protagonisti della miniserie “Unorthodox” (2020) ambientata tra gli ebrei chassidici di New York

Il ritmo della vita, in una comunità religiosa, è scandito dal calendario liturgico ossia dalle feste, e dagli obblighi e dai riti connessi, che separano in modo netto il tempo feriale dal tempo festivo. È un dato storico e antropologico, che vale per ogni fede e non solo per cristianesimo ed ebraismo. Persino le società laiche, che si strutturano in età moderna a prescindere dai contesti religiosi, hanno i loro calendari civili, che i sociologi chiamano “civil religions”. Nel calendario o meglio lunario ebraico, tuttavia, alcune feste religiose come Pesach, la pasqua, e Sukkot, le capanne, durano una settimana o più, sebbene solo l’inizio e la fine siano “solennità”, il che fa sorgere il problema di quale sia lo status religioso e la normativa halakhica (che fissa quel che si può o non si può fare) dei giorni intermedi. Questi giorni infatti hanno una strano statuto: in un certo senso sono tempo ibrido, metà festivo e metà feriale, perché la quotidianità ha sue esigenze e urgenze. Si chiamano mo‘ed qatan o anche chol ha-mo’ed, detti comunenente “mezza festa”. Non sorprende, anzi ci si aspetta che la tradizione rabbinica abbia affrontato il problema cercando di “disambiguare”, come si dice oggi, questo lasso temporale, in cui si dovrebbe continuare a vivere la gioia della festa, ma che deve cedere anche alle azioni più prosaiche della vita ordinaria, come irrigare i campi, pena la perdita del raccolto, o seppellire i morti e dunque fare lutto. Molti secoli fa, le norme rabbiniche su questa complessa materia sono state raccolte nella Mishnà e poi discusse ed elaborate nel Talmud, che porta appunto il nome di Mo‘ed qatan, letteralmente “piccola festa”. Questo testo è uscito in questi giorni in traduzione, a cura del rabbino Michael Ascoli (Giuntina, pagine 378, euro 55,00) e con l’originale ebraico a fronte, segnando un’altra tappa del grande progetto che prevede l’edizione italiana di tutto il Talmud Babilonese, progetto presieduto dal rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni.

Come esiste una precisa normativa sulla festa principale del giudaismo, lo shabbat, altrettanto precisi sono riti e precetti che si osservano nelle altre festività. Tuttavia, nel caso delle mezze feste le discussioni si fanno più accese perché, come spiega il curatore rav Ascoli, «si tratta di trovare un equilibrio fra cose permesse e cose vietate nelle solennità» e pertanto alcuni divieti possono essere, almeno in parte, derogati. «Opere a beneficio della collettività, circostanze di utilità pratica, occasioni che non si ripetono e situazioni di grande necessità possono costituire motivo di deroga». Ad esempio la vita agricola, che era il nerbo dell’economia antica, costituisce un ambito di necessario compromesso proprio per non compromettere il benessere della comunità: sebbene il principio sia quello di limitare il più possibile il lavoro manuale, al fine di godersi la festa e adempiere ai suoi precetti, nei giorni intermedi è possibile lavorare per proteggere i raccolti, curare gli animali in quanto primi collaboratori dell’uomo (all’epoca) e in generale prevenire eventuali danni che deriverebbero dal trascurare campi e bestiame. Persino attività apparentemente non essenziali come spremere le olive per fare olio o l’uva per il fare vino possono essere svolte in quei giorni, pena il rovinare il raccolto stesso. Di più, anche i trattamenti cosmetici sono oggetto di riflessione e discussione in questo trattato, che tiene molto in considerazione le esigenze quotidiane del mondo femminile: «La donna può fare i suoi trattamenti di bellezza nei giorni di mezza festa: tingersi le palpebre, pettinarsi, applicare cosmetici sul viso e depilarsi». Che i maestri si interessino al benessere psicologico e fisico delle proprie mogli in un trattato talmudico è segno eloquente di quanto la sfera religiosa abbracci ogni aspetto della vita ebraica. Permettere questa cura del corpo è, ebraicamente, considerato un dovere religioso. Piacersi e piacere sono parte della gioia di ogni vera festa, e come si cerca di mettere qualcosa di speciale sulla tavola e di vestirsi in modo più elegante, così dev’essere anche per il proprio corpo, preservando naturalmente la virtù della sobrietà e il senso del pudore.
Ma nella vita quotidiana esistono anche momenti in cui è difficile o impossibile fare festa, e sono le ore del lutto, quando muore un parente stretto e occorre compiere i riti funebri con le loro regole. Cosa fare in questi casi, quando il lutto cade durante le feste e le mezze feste? Questione seria, almeno per chi prende sul serio l’uno e le altre; sia il lutto sia le feste sono oggi i punti più dolenti del “senso religioso” delle nostre società occidentali, che non sanno più elaborare il primo né santificare le seconde. Ecco perché il trattato Mo‘ed qatan dedica molte pagine alla normativa che concerne il lutto, come ad esempio lo strapparsi una parte del vestito subito dopo la sepoltura, come segno visibile di “rottura” nella propria persona, un gesto che ancora è praticato nel mondo ebraico (ovviamente deve trattarsi di un familiare stretto, come i genitori, il coniuge o un figlio). Ma le regole sono molte, improntate a rimarcare la perdita, tese a dare il giusto peso al dolore e ad esprimerlo, senza liquidare il lutto prima del tempo ma anche senza esagerarlo, come se la vita non continuasse.

Certo, può lasciare perplessi che un trattato connesso alle feste dia così tanto spazio a “casi di studio” su funerali e segni di lutto. Eppure è proprio in questo contrasto tra la gioia e il dolore, tra la vita e la morte, che la regola diviene saggezza, che la norma rivela sapienza, che il rito funge da educazione collettiva. Esattamente il contrario del principio odierno, per cui “ciascuno fa quel che vuole”. Non funzionava così nelle tradizioni antiche, e non funziona così oggi nelle medesime tradizioni, nelle quali essere religiosi significa sentirsi parte di una comunità, e non c’è comunità senza un ethos, cioè un’etica e delle norme condivise. Per quanto singolari queste regole possano apparire fuori dalla cultura e dalla prassi del giudaismo rabbinico, essere sono foriere di un senso profondo della vita e soprattutto dei nostri doveri verso di essa. Come ripeteva spesso il filosofo Emmanuel Levinas nelle sue letture talmudiche, alla fin fine l’halakhà ossia la normativa ebraica parla il linguaggio della responsabilità.