Come si combatte la povertà? Chiedetelo ai poveri. Quella di Abhijit Banerjee e Esther Duflo, pluripremiati economisti del Mit di Boston, non è una provocazione. Da 15 anni i due co-fondatori e direttori del centro di ricerca
Abdul Latif Jameel Poverty Action Lab (lui di origine indiana, lei francese) si confrontano quotidianamente, come studiosi e operatori sul campo, con le teorie generali e i modelli troppo semplici usati dagli economisti dello sviluppo per tentare di incasellare le vite degli indigenti. «Da quando esiste la povertà, esiste anche la tentazione di ricondurre i poveri a una serie di stereotipi», osservano Banerjee e Duflo. Non c’è da stupirsi, dunque, che gli orientamenti politici mirati allo sviluppo finiscano spesso, a loro volta, per essere espressi in semplici slogan, da «libero mercato per i poveri», a «dare più denaro ai più poveri» fino a «gli aiuti internazionali uccidono lo sviluppo». Il che spiega «perché tante formule magiche di ieri siano diventate oggi idee fallimentari». Il punto – sostengono – è che nessuno ha mai considerato gli indigenti come «fonte di conoscenza», né si è preso la briga di andare a chiedere loro «cosa pensino o cosa desiderino». Proprio ciò che, invece, i due economisti hanno cercato di fare con il loro lavoro, come raccontano nel recente volume scritto a due mani
L’economia dei poveri. Capire la vera natura della povertà per combatterla (Feltrinelli, pp. 314, euro 35). Perché càpita che una mamma senza possibilità economiche trascuri di fare vaccinazioni salvavita gratuite per pagare invece farmaci inutili? O perché, in molti casi, i bambini di famiglie povere vanno a scuola senza imparare nulla? Che cosa significa, in termini di scelte quotidiane e di atteggiamento verso il futuro – dal risparmio alla scolarizzazione dei figli –, vivere con 99 centesimi al giorno (impresa affrontata ogni giorno dal 13% della popolazione mondiale…)? Per cercare di rispondere a queste e tante altre domande, gli autori fanno riferimento alle proprie esperienze come ricercatori e consulenti in numerosi progetti di sviluppo, ma anche a un ricco patrimonio di studi empirici e soprattutto alle centinaia di prove realizzate nel Sud del mondo dallo staff del
Poverty Action Lab. Ricerche basate su uno strumento già illustrato da Duflo nel suo precedente lavoro (pubblicato l’anno scorso sempre da Feltrinelli)
I numeri per agire, e cioè gli «studi controllati randomizzati». Sul modello della sperimentazione medica, i ricercatori effettuano prove su ampia scala per verificare la reale validità delle proprie teorie: individui e comunità vengono assegnati in maniera aleatoria a diversi programmi (ad esempio la distribuzione di zanzariere gratis o invece a pagamento), per poter poi comparare i risultati dell’intervento e trarne informazioni preziose per i successivi progetti. Nessuna ideologia né convinzioni a priori (nemmeno in buona fede), molti dati. Dal materiale così raccolto, Banerjee e Duflo sintetizzano alcune costanti riscontrate, ad esempio l’importanza di avere accesso a certe informazioni cruciali per fare le scelte giuste: dalle cause di trasmissione dell’Hiv, al corretto uso dei fertilizzanti in agricoltura (in certi casi i contadini ne utilizzavano il doppio del necessario), fino al reale curriculum dei candidati alle elezioni. Un altro importante elemento che emerge dall’analisi economica degli autori riguarda il ruolo dei mercati, che in molti contesti «non servono i poveri oppure lo fanno a prezzi sfavorevoli, perché la gestione di somme di denaro anche modeste comporta un costo fisso». Questo spiega perché, ad esempio, gli indigenti non prendano in considerazione l’ipotesi di stipulare un’assicurazione sanitaria. In alcuni casi un’innovazione tecnologica, come i sistemi di trasferimento di denaro attraverso i cellulari, potrebbe favorire lo sviluppo di un mercato che prima mancava, in altre situazioni «i governi dovrebbero intervenire a sostegno del mercato creando le condizioni necessarie per il suo funzionamento». Il punto non è formulare principi generali, validi sempre, ma mettersi ogni volta in osservazione e in ascolto. Per poter identificare, caso per caso, se esista e dove si nasconda quella «trappola della povertà» che impedisce alle persone di risollevarsi. Che si tratti di cibo malsano o impossibilità a risparmiare, incapacità di comprendere un modulo o persino la mancanza di aspettative positive da parte degli altri, come nel caso di quei ragazzi che abbandonano la scuola perché gli insegnanti o i genitori li inducono a credere di non essere abbastanza intelligenti. Ciò che Banerjee e Duflo tengono a sottolineare è che «piccoli cambiamenti posso produrre grandi risultati. I bambini kenioti che a scuola sono stati sottoposti a trattamento vermifugo per due anni invece che uno (a un costo di pochi centesimi alla compressa) da grandi hanno guadagnato ogni anno il 20% in più». Nessuna politica macroeconomica, finora, ha avuto un tale effetto. La chiave è continuare a porre le domande giuste, mettere alla prova le possibili risposte e imparare dagli errori, nella convinzione che la povertà può essere sconfitta. Con pazienza, un passo dopo l’altro.