In contrasto con il dinamismo dei giovani, ho spesso pensato alla celebre pagina di Balzac che descrive la Chiesa come una vecchietta confinata in una sacrestia ingombra di antiquati orpelli. Sognavo senza ambage di spalancare le finestre e di buttare fuori tutto! Oggi, dopo essere passata in tante sacrestie, sono giunta a convinzioni diverse. Naturalmente, nulla è perfetto. Ma qual è l’istituzione sulla terra che non presta il fianco a qualche critica? L’ho già scritto: il mio sguardo, ora, si rivolge soprattutto sugli aspetti positivi degli uomini e delle cose. Sicuramente, mi ci sono voluti molti contatti e molte peregrinazioni per arrivare a discernere, dietro ai vecchi orpelli ecclesiastici, una sconcertante vitalità. Oggi, dopo essere stata ricevuta da numerosi sacerdoti e vescovi, ho fiducia nel dinamismo della Chiesa. Confesso che non mi aspettavo di trovare nella maggior parte di loro una eco così diretta alle invocazioni del mondo – un solo vescovo, ritenendomi troppo rivoluzionaria, mi ha proibito l’accesso nella sua diocesi! In Francia, ho incontrato preti con uno stile di vita più che modesto, il cui portafoglio si vuotava regolarmente a ogni grido di aiuto: «Da me, la porta è sempre aperta. Chi passa, si siede, e condividiamo la minestra». Nel corso delle serate trascorse nei presbiteri di diversi Paesi, la conversazione si soffermava in genere su una medesima ossessione: «Come rispondere alle richieste degli uomini di oggi?». Spesso in uno sguardo angosciato si leggeva la preoccupazione di non riuscire a corrispondere alle attese. Eppure, li vedevo quei preti, aiutati da volontari, sfinirsi in riunioni, campi, attività sociali di ogni genere e penetrare negli ambienti più colpiti dalle avversità: droga, Aids, carcere. Loro scopo non era sollevare una massa che si dirige altrove, ma risvegliare alla condivisione di un’effettiva solidarietà piccoli gruppi di volenterosi. Quante volte ho condiviso una scodella di riso al prezzo di un pasto completo in una sala parrocchiale! Quanti salvadanai di classe o familiari mi sono stati offerti nel corso di cerimonie religiose! Quante stupende lettere di bambini nel tempo di Quaresima: «Sorella, ho trasportato delle carriole di sassi per guadagnare il denaro che le invio; ero stanca, ma Gesù lo è di più!». O ancora: «Non ho mangiato tramezzini al prosciutto a scuola per conservare i soldi per i miei fratellini che hanno fame; io, comunque, dopo mangiavo bene a casa». Questa educazione alla condivisione mi ha fatto conoscere una Chiesa più assetata di giustizia di quanto non lo fosse all’epoca della mia infanzia. Il cardinale Decourtray mi ha invitata un giorno alla sua mensa. Con impudenza, mi permisi di chiedergli: «Padre vescovo, la Chiesa è veramente serva e povera?». Ci fu un silenzio... «Abito questo palazzo episcopale che è proprietà dello Stato e rappresenta la residenza del vescovo di Lione. Quando ero giovane prete, avevo preso la decisione di abitare in una stanzetta e di non viaggiare che in bicicletta. Oggi potrei confinarmi in una stanzetta e utilizzare solo una bicicletta? Lei rigira il coltello nella piaga, suor Emmanuelle. Preghi affinché io viva il più poveramente possibile là dove devo attualmente risiedere e affinché io sia veramente il servo di tutti!». Sono le sue testuali parole. Lo guardai. Il suo volto aveva la tristezza dell’uomo obbligato a vivere lontano dal suo ideale. E tuttavia, lui che aveva risposto alla mia aggressività con la dolcezza e una richiesta di preghiere, non praticava forse quella povertà di spirito che Gesù ha stabilito come prima beatitudine? E, tutti lo sanno, il cardinale Decourtray non faceva spese inutili e d’ostentazione. Se san Paolo fosse oggi arcivescovo di Lione, potrebbe, come ai suoi tempi, fabbricare tende per guadagnarsi da vivere? Potrebbe fare i suoi viaggi da città a città a piedi? In più occasioni ho ritrovato questa nostalgia della povertà primitiva. Con il cardinale Lustiger, invece, ho parlato della formazione dei seminaristi: «Dovrebbero condividere la vita del terzo o del quarto mondo, andare a vivere per un periodo in una
bidonville e dormire sotto i ponti con i senza fissa dimora». Senza cedere allo sconcerto davanti al mio tono aggressivo, il cardinale mi ascolta con attenzione: «La loro formazione include, in effetti, un contatto con gli ambienti svantaggiati di Parigi. Ogni settimana trascorrono varie ore al servizio dei più poveri, dei malati, degli anziani, handicappati e senza fissa dimora. Bisognerebbe prendere in considerazione di mandarli in una
bidonville, me la può descrivere?». Lo sentivo pronto ad accettare nuovi suggerimenti. Un amico mi aveva chiesto di porgli questa domanda: «Lei darebbe un posto di lavoro a un omosessuale?». «Sì. L’ho già fatto, perché era un uomo di valore». Mi invitò a parlare a Notre-Dame di Parigi alla fine della messa solenne della domenica sera. Mi abbracciò poi fraternamente, ringraziandomi mentre tornavamo in sacrestia. Non vi vidi vecchi orpelli, ma un uomo dallo spirito giovane, aperto ai problemi del nostro tempo. A Roma ho avuto un terribile fremito di ribellione. Avrei fatto meglio a non lasciarmi trascinare ai Musei Vaticani: oro, argento, pietre preziose, doni di incredibile valore accumulati nei secoli... Mi trovavo davanti a ricordi di arte sacra o in una grotta di Alì Babà? Ne parlo con un venerabile ecclesiastico: «Vendendo questa inutile miniera d’oro, il Papa potrebbe aiutare tante nazioni povere!». «Il Papa non ha il diritto di farlo, sorella. Mitterrand è forse il proprietario dei tesori del Louvre?». Non so veramente che cosa rispondere! La critica è facile, ma l’arte è difficile. Se fossi «papessa», con il rollio e il beccheggio che provocherei è sicuro che la Chiesa navigherebbe in pace verso il porto?