Non bastano gli anni di seminario a strutturare futuri presbiteri convinti della loro vocazione, capaci di attraversare crisi e momenti di stanchezza. Per i preti ci vuole una formazione permanente, da non considerare «un optional facoltativo, come spesso avviene». Accanto a una vita spirituale intensa, bisogna curare la dimensione umana delle relazioni e imparare a delegare, a «far fare piuttosto che strafare». Perché «oggi più che mai il lavoro pastorale necessita di una sana collaborazione con i laici». Giunge a queste conclusioni
Preti sul lettino, scritto a quattro mani da don Giuseppe Crea, psicoterapeuta, e il giornalista Fabrizio Mastrofini, appena edito da Giunti (pp. 126, euro 12), a poche settimane dalla conclusione dell’Anno sacerdotale voluto da Benedetto XVI. A partire dalla presentazione (qui accanto in parte proposta) di Alberto Oliverio, docente di psicobiologia alla Sapienza di Roma, l’approccio del volume non è offrire ricette semplicistiche, né di presumere che i casi raccontati (rispettando ovviamente l’anonimato dei protagonisti) rappresentino complessivamente i problemi dei preti italiani. Che nella stragrande maggioranza non sono affatto afflitti da immaturità affettive o vocazionali. Però si vuole smentire pure l’ottimismo a buon mercato, ponendosi un franco interrogativo: «Tutto funziona per il meglio?». Gli autori invitano perciò a esplorare con sguardo mai morboso disagi psicologici e patologie affettive vissuti a volte da chi sceglie «una professione di aiuto come il sacerdozio», affrontando anche con delicatezza casi di pedofilia e di altri abusi, compiuti celandosi dietro il proprio ruolo. Ma la tipologia dei problemi ricorrenti è molto più estesa: dal malessere alla depressione, dallo «stress nell’attività pastorale» alle rigidità personali nel concepire la fede in modo «ritualistico», come fosse un «toccasana delle proprio inquietudini interiori». E poi i conflitti con gli altri preti, sperimentando l’incapacità di gestire le relazioni e i salti generazionali, i carichi di impegni crescenti. Se il clero invecchia e diminuisce, bisogna "rimpiazzarlo" anche se le vocazioni scarseggiano: i dati parlano di 7300 nuovi sacerdoti negli anni Settanta, mentre nel 2012 potrebbero scendere sino a quota quattromila. Così le nuove leve vengono investite presto di responsabilità parrocchiali e si abituano a organizzarsi da soli: situazioni nelle quali la sindrome del
burnout (sentirsi esauriti e demotivati, letteralmente «bruciati») è un rischio molto concreto ma a lungo non esplorato dalle ricerche sui sacerdoti in Italia, e solo di recente oggetto di opportuni studi specifici. Senza contare la pressione psicologica provocata dalle continue sollecitazioni dei fedeli che cercano un punto di riferimento, oppure sono disinteressati e lontani. Ci vuole un saldo equilibrio emotivo pure per governare nevrosi personali, talvolta condite da narcisismo e ossessioni di perfezione. Si comincia, inoltre, a mettere bene a fuoco il ruolo del presbitero per capire come stia mutando anche dal punto di vista sociologico, oltre che pastorale. Così la «discussa solitudine del prete» non sembra tanto dovuta alla mancanza di affetti, quanto «alla percezione di una solitudine ecclesiale davanti ai problemi e alle decisioni da prendere. Si tratterebbe dunque di una questione pastorale e ministeriale, piuttosto che emozionale e relazionale». In altre parole, può accadere che il sacerdote avverta più la vicinanza dei laici impegnati che quella dei confratelli e perfino del suo vescovo. In alcuni casi una maggiore vita fraterna di più sacerdoti che esercitano il loro ministero in una stessa parrocchia o nella medesima area, così come la «paternità» esercitata dai superiori e una «spiritualità praticata in modo continuo» possono fare la differenza sia per i giovani che per i preti di mezza età. Come il quarantenne don Ferdinando, che si ritrova oberato di impegni e sbotta di fronte a chi gli dice che l’unica soluzione ai suoi dubbi e problemi sia la preghiera, accorgendosi poi che fin da piccolo gli era stato chiesto di rispondere ad aspettative troppo alte rispetto alle sue capacità. O don Alfonso, trentacinquenne con la sindrome del «buon samaritano» fino ad annientarsi per gli altri, perdendo il contatto con le motivazioni della sua scelta.Al di là della galleria casistica, gli autori suggeriscono una strategia che comprenda anche un
vocational center per la formazione permanente dei formatori, oltre a un «centro di primo ascolto» che accolga i preti in difficoltà e li aiuti a fare discernimento, con un eventuale sostegno psicologico: interventi che non possono essere lasciati all’improvvisazione.