Gary doveva essere la Città del secolo, la città magica, doveva rappresentare il sogno americano del progresso. Qui nei primi del Novecento, nello Stato dell’Indiana (a una trentina di chilometri da Chicago), il presidente della United States Steel Corporation, Elbert H. Gary, costruirà la sua fabbrica d’acciaio, dando vita all’omonima località. Iniziò così una sorta di pellegrinaggio verso questa piccola cittadina sulle sponde del Michigan: a cercarvi fortuna, in particolare dal secondo dopoguerra in avanti, emigranti provenienti dalla disastrata Europa e afroamericani stanchi delle vessazioni del Sud. Dal nulla Gary diventò uno dei poli produttivi più importanti del Paese ma alla gloriosa espansione industriale si affiancheranno ben presto i grandi problemi dell’America di allora, su tutti, l’affermarsi delle disuguaglianze sociali e delle discriminazioni razziali. «Crescendo a Gary non potevi non notare la povertà, la discriminazione. Era impossibile non vedere che qualcosa non funzionava», ricorda l’economista Joseph Stiglitz, che nella proletaria e ruvida Gary ci è nato e cresciuto. E in quel contesto il premio Nobel per l’Economia ha maturato il suo interesse per lo studio delle disuguaglianze. Di famiglia ebraica, Stiglitz è cresciuto ascoltando le discussioni tra la madre Charlotte, progressista e sostenitrice del New Deal, e il padre Nathaniel, piccolo imprenditore con posizioni più conservatrici ma sempre politicamente vicine ai democratici. «Negli anni ’70 – il ricordo di Stiglitz, classe 1943, di suo padre – divenne un grande sostenitore dei diritti civili. Aveva un forte senso civico e di responsabilità morale». Una ricerca pubblicata nel 2014 dal Dipartimento americano per l’educazione rileva che il sistema scolastico Usa (97mila le scuole prese in considerazione) non garantisce le stesse opportunità di apprendimento a tutti gli studenti (un quarto delle scuole con studenti in prevalenza latini o di colore non ha accesso a corsi di algebra di secondo livello o di chimica). Un tema al centro degli studi Stiglitz, e da tempo al centro dei suoi pensieri: quando viveva a Gary, aveva una governante, Fannie Mae Ellis, una donna di colore cresciuta nel sud del paese, costretta a lasciare la scuola a sei anni. «Le nostre aspettative erano andare al college – ricorda l’economista – e mi chiedevo perché una persona di quel valore, così brillante, potesse aspirare solo a un grado di istruzione elementare... Non avevo parole per descriverlo ma mi colpì, mi diede molto fastidio». Spinto da un idealismo che traspare chiaramente dalle suo parole – riconducibile, guardandolo in prospettiva ebraica, ai principi di Tzedakah, giustizia sociale – il premio Nobel si è concentrato nell’analizzare le falle del sistema economico e di alcune delle teorie che lo reggono. Per l’economista, il neoliberismo sbaglia nel pensare che i mercati portino autonomamente a soluzioni efficaci; e in un mondo in cui la globalizzazione costituisce un fenomeno economico positivo (tema a cui ha dedicato un’opera molto conosciuta,
La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, 2002) è ancora più cruciale controllare il mercato globale. Altrimenti? I risultati si vedono proprio nella città natale di Stiglitz, quella Gary che sognava di essere una locomotiva e invece è un fantasma: l’apertura del mercato globale ha fatto crollare l’industria locale dell’acciaio e il 90 per cento degli operai in pochi anni è stata licenziata. «Nell’economia moderna devi correre per riuscire a rimanere fermo», il riassunto di una situazione di produzione frenetica che ha spazzato via molte aziende e ha ampliato in molti paesi la forbice nel divario tra ricchi e poveri. Una fotografia che si addice in particolare agli Stati Uniti, a cui è in larga parte dedicato l’ultimo libro
The great divide. Unequal societies and what we can do about them (2015).
Professore, lei ha lavorato molto per analizzare le disuguaglianze sia negli Stati Uniti sia su scala globale. Se dovessimo tradurlo in dati, di che fenomeno stiamo parlando? «Se guardiamo il quadro attuale, l’un per cento della popolazione detiene circa il venticinque per cento del reddito, e negli ultimi trent’anni questa proporzione è cresciuta di tre, quattro volte. Ho sentito che non dovremmo preoccuparci di chi sta in alto, perché i benefici cadranno a cascata anche sui poveri e sulla classe media. Non è così: chi sta in fondo alla scala sociale oggi sta peggio. In quarant’anni i redditi medi sono rimasti praticamente invariati ma i salari reali minimi sono oggi più bassi anche rispetto a circa sessant’anni fa. Questo spiega perché oggi negli Stati Uniti c’è ad esempio un forte movimento politico che spinge per aumentare i salari minimi. E penso in particolare alle donne, che in caso di monoreddito e un figlio a carico, si trovano in situazione di grande difficoltà. Inoltre, la disparità di reddito determina anche disparità nelle opportunità. Ciò si potrebbe compensare ad esempio con una buona istruzione pubblica, ma negli Stati Uniti non succede».
Quale peso ha il sistema scolastico ed educativo perché una società sia più o meno disuguale? «È fondamentale ed è necessario investire in politiche educative dirette anche alle famiglie. Una battuta che faccio spesso ai miei studenti è che la decisione più importante della loro vita e quella di non scegliere i genitori sbagliati. E una battuta ma corrisponde alla verità e dobbiamo fare in modo che la situazione cambi. E, come sottolineava il mio collega Anthony Atkinson [Nobel per l’Economia 2012,
ndr], è necessario avviare progetti dedicati già alla prima infanzia».
Lei però ha raggiunto la vetta senza che la sua famiglia rientrasse nell’élite. «Mia madre mi incoraggiava a usare il cervello. E ho avuto la fortuna di avere grandi maestri nel corso del mio percorso scolastico».
Per far accedere all’università più persone possibili oggi esistono le università o comunque l’insegnamento online. Lei cosa ne pensa? «Sicuramente in termini generali è positivo perché garantisce a studenti, che altrimenti non potrebbero seguire, di avere una formazione. Ma credo ancora che i maestri siano importanti, ciò che dobbiamo fare è alzare il livello dell’educazione».
A proposito di disuguaglianze, Israele aveva avviato al suo interno un progetto, quello socialista dei Kibbutzim, che voleva abbatterle. Ma è fallito. Che insegnamento dobbiamo trarne? «Non conosco abbastanza bene la realtà dei kibbutz per rispondere. Quello che so è che Israele stessa è nata sulla spinta dell’egualitarismo sociale e invece oggi è uno dei paesi in cui il divario sta aumentando di più. Il progetto originale era straordinario, volto a creare una società giusta. Ora si stanno allontanando pesantemente da quell’obiettivo».