L'astrofisico. «Il fascino delle stelle e la religiosità»
La celeberrima «Notte stellata» di Van Gogh sarebbe stata dipinta all’alba del 19 giugno 1889 dall’ospedale Saint-Rémy de Provence
Ormai non ci sorprende più un cielo stellato, eppure fermarsi e alzare lo sguardo in una notte buia e limpida è un gesto iscritto dentro di noi se era già comune agli uomini delle caverne. Abbiamo smesso di “desiderare”: un verbo che non a caso rimanda alle stelle (dal latino de-sidera). Ma non possiamo farne a meno perché sentiamo forte la mancanza di qualcosa più grande di noi. È allora suggestivo il percorso tracciato da Marco Bersanelli, uno che di astri se ne intende, nel libro Il grande spettacolo del cielo. Otto visioni dell’universo dall’antichità ai nostri giorni( Sperling & Kupfer, pp. 288, euro 18).
Docente di astronomia e astrofisica all’università degli Studi di Milano, Bersanelli ci conduce in un appassionante viaggio ipergalattico che risale fino al tempo in cui l’uomo fece la sua comparsa sulla Terra. Un volume da naso all’insù in compagnia non solo degli scienziati, ma anche di poeti e artisti che si sono lasciati sedurre dalla bellezza del cosmo. «È paradossale – spiega l’astrofisico –: oggi la tecnologia ci permette di scrutare le profondità dell’universo a un livello inconcepibile anche solo pochi decenni fa, eppure questa è la prima generazione che ha perso l’abitudine di esporsi alla meraviglia del cielo stellato».
Perché mai siamo diventati così insensibili?
«Pesa senz’altro uno stile di vita più frenetico. Si è indebolita la contemplazione della realtà, non ci stupiamo più di quel che ci circonda. Ci appare più attraente ciò che produciamo, il virtuale. Eppure da sempre la bellezza della natura ha guidato l’uomo alla verità e alla conoscenza profonda di sé».
I precursori degli “astronomi” risalgono addirittura alla preistoria.
«Sì, già l’uomo di Cro-Magnon era un abituale osservatore del cielo: sono stati ritrovati calendari lunari scolpiti su ossa di animali e gruppi di stelle dipinte sulle pareti, come nelle grotte di Lascaux. Noi stiamo perdendo l’attrattiva di tutte le culture antiche davanti all’immensità del cosmo. Un fascino che si intreccia con la religiosità».
Una curiosità mistica che si ritrova anche tra i grandi scienziati come Einstein: «Voglio sapere come Dio creò questo mondo. Voglio conoscere i suoi pensieri; in quanto al resto, sono solo dettagli».
«Sì, è uno dei suoi tanti aforismi pungenti e significativi. Il motore che sta sotto la passione con cui gli scienziati si muovono in questo campo è poter svelare qualcosa di un ordine dato, che non abbiamo fatto ed esiste prima di noi. Non è un caso che la Chiesa abbia attivamente sostenuto l’astronomia, tanto che la Specola Vaticana è uno dei più antichi osservatori al mondo. Nella tradizione cristiana la bellezza della natura e del cielo in particolare è il segno per eccellenza della grandezza del Creatore».
Una bellezza cantata in maniera “scientifica” anche dai letterati di ogni tempo...
«Emblematico il caso di Dante, che nella descrizione sublime del Paradiso anticipò un’intuizione ripresa soltanto 6 secoli dopo: l’ipersfera. Oppure Shakespeare che nell’Amleto cita quella che per alcuni studiosi è la “nuova stella” di Tycho del 1572».
Abbagliato dal cielo fu anche un poeta descritto sempre come ricurvo sulle sue carte.
«Leopardi a soli quindici anni scrisse un trattato di storia dell’astronomia, la “più sublime, la più nobile tra le scienze fisiche”. Nel cosmo secondo lui si rispecchiava la domanda ultima dell’uomo, sul significato della sua vita e del mondo, come nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. E d’altra parte Leopardi aveva colto come nell’essere umano c’è qualcosa di più grande dell’intero universo, che non può essere ridotto a nessuna misura. La ragione riconosce che ci sono eventi che i numeri non possono spiegare: come la nascita di un bambino, davanti a cui anche un miliardo di anni luce rimarrà sempre e soltanto un numero».
Ha fatto scalpore di recente la scoperta di sette piccoli pianeti intorno alla stella Trappist-1.
«C’è stato un eccessivo clamore mediatico. Alcuni pianeti erano già noti e non è vero che sono paragonabili alla Terra, hanno solo alcune grossolane caratteristiche simili. La presenza di acqua non è sufficiente per dire che sono “abitabili”. E di pianeti extrasolari di questo tipo ne sono stati censiti già a migliaia. Se non altro però questa notizia ha spinto molti ad interrogarsi sul grande mistero dell’universo. Io stesso mi sono innamorato di questi studi da ragazzino, quando è già grande la curiosità di sapere che cosa c’è oltre quello che vedi. È fondamentale anche dal punto di vista educativo imparare a lasciarsi interrogare e stupire dalla realtà, anche solo da una falce di Luna. È stato questo il segreto dei grandi artisti».
Da Giotto a Gaudì non sono pochi coloro che son riusciti a ritrarre il respiro dell’universo.
«Il passaggio della cometa di Halley del 1301 stupì così tanto Giotto da immortalarlo nella Adorazione dei Magi della Cappella degli Scrovegni, dando inizio alla tradizione della “stella di Betlemme” come se fosse una cometa. E Gaudì si ispirava sempre nelle sue architetture al movimento degli astri: nella navata della Sagrada Familia davvero le colonne degli alberi lasciano intravedere le stelle. C’è però un’opera nella storia dell’arte che più di tutte “parla”».
Quale?
«È la famosa Notte stellata di Van Gogh che ritrae le nebulose nel cielo stellato come Lord Rosse le aveva viste per la prima volta col suo gigantesco cannocchiale. Da sempre le stelle rimandano al destino dell’uomo. E anche per l’artista olandese rimasero fino alla fine il segno di un’ultima speranza possibile. Al fratello confidò che “la speranza è nelle stelle” e spiegò che le sue tante raffigurazioni notturne nascono da “un bisogno tremendo di – userò la parola – religiosità, per questo alla sera vado fuori e dipingo le stelle”».