Agorà

Il personaggio. Sylvester Stallone, come il cinema portò il proletariato al potere

Massimiliano Castellani venerdì 5 febbraio 2021

Un'immagine dal film F.I.S.T. con Sylvester Stallone, 1978

«Rocky, Rambo e Sting l’America li vuole così...», cantava Antonello Venditti nel 1986 (album Venditti e segreti). E a parte l’intruso inglese, il frontman della band dei Police Sting, l’America degli anni ’80, complice anche la spinta propulsiva della politica reaganiana (il presidente-attore Ronald Reagan) si sentiva davvero un po’ come Rocky e Rambo. Le due maschere popolari interpretate da Sylvester Stallone.

«La sua idea geniale fu Rocky», assicura Diego Gabutti che ha scritto un libro molto originale sull’attore, regista e produttore americano, Il grande Sly (Milieu Edizioni). Un saggio dal sottotitolo emblematico, e a primo impatto spiazzante: Film e avventure di Sylvester Stallone eroe proletario.

Ed è quest’ultima accezione, «eroe proletario», in cui Gabutti, già autore di un interessantissimo C’era una volta in America (saggio-intervista con Sergio Leone) ci guida a una visione del personaggio che va ben oltre il nostro eroe Sly e il suo mondo muscolare di celluloide. Icona proletaria è sicuramente Rocky. Il pugile un po’ suonato che dai bassifondi di Philadelphia e il “sacco” della macelleria dove va a sfogare i suoi fallimenti sportivi ed esistenziali, riesce a salire sul ring illuminato dai riflettori del pugilato stellare e milionario per sfidare il campione del mondo dei massimi, il colored Apollo Creed.

Ma prima del “match del secolo”, almeno per il grande schermo, un’intera generazione ha sognato, corso e poi è salita (non solo nel film), assieme allo “Stallone italiano”, tutti i 72 petrosi gradini della “Scalinata di Rocky”, alias il Philadelphia Museum of Art. Però, prima del trionfo di Rocky, Michael Sylvester Gardenzio Stallone aveva incassato soltanto ko. Il ragazzotto palestrato e dallo sguardo da triglia (ha 160 di quoziente intellettivo) classe 1946, è stato infatti il più grande “rifiutato” dello star system a stelle e strisce del secolo scorso.

Sly nasce nel malfamato quartiere di Hell’s Kitchen, (la Manhattan no good), forse prova a bussare alle porte di Broadway ma non gli aprono. E allora, nel 1969, ci prova con il cinema. Particina risicata nel film, metafora dei suoi primi goffi tentativi, Spericolati di Michael Ritchie, protagonista Robert Redford, ma ai titoli di coda il nome di Sylvester Stallone viene depennato.

Questo figlio del popolo dei paisà, nonno Silvestro Stallone e nonna Pulcheria Nicastri sono baresi – originari di Gioia del Colle – sbarcati nella Grande Mela nel 1930, tranne il primo film a luci rosse, in cui si guadagna anche i primi 200 dollari recitando (sì fa per dire), subisce l’umiliazione del “non accreditato” seriale.

Comincia Cy Howaerd che non lo menziona nel suo Amanti ed altri estranei ( 1970) così come non risulta nel cast per i cammei a cui partecipa in Piccioni di John Dexter (1970) e ne Il dittatore dello stato libero di Bananas (1971) di Woody Allen.

L’alternativa a quel punto era il negozio di barbiere del padre Frank senior, ma i tarocchi di mamma Jacqueline Labofish (morta da poco, a 99 anni) astrologa, figlia di un ebreo ucraino di Odessa, rivelarono che le stelle erano con lui e che sarebbe diventato una star di Hollywood.

Anno di grazia 1976, nelle sale esce L’ultima follia di Mel Brooks, «primo film muto dopo quarant’anni di sonoro» e in quella stessa stagione avviene la metamorfosi kafkiana di Sly. «Gregor Samsa Stallone. O la metamorfosi d’una promessa del cinema», sottolinea Gabutti che trova «geniale il Sylvester inventore, alla metà degli anni ’70, del nuovo genere dell’ “action film”». Come Rocky resiste fino al 15° round ai colpi di Apollo Creed, così Stallone non cede il suo progetto ai produttori che non erano disposti a dargli la parte del protagonista, ma lo avrebbero ripagato come autore e ideatore del film, con 300mila dollari.

Ma in quell’offerta allettante per le sue tasche vuote, Sly vide un altro rifiuto e così decise di scommettere sulla sua faccia. Una scommessa da 1 milione e 100mila dollari e regia affidata a un altro outsider come lui, John G. Avidsen. Rocky oltre ad urlare Adriana poté gridare al miracolo.

Successo planetario: 225 milioni di dollari al botteghino, Oscar come migliore attore del 1977, Oscar per la regia a Avidsen («subito ripiombato nell’anonimato») e nomination per la sceneggiatura scritta di suo pugno in qualche stamberga della sua prima vita. «Roba che prima di lui solo Charlie Chaplin e Orson Welles», fa notare Gabutti.

L’eroe del proletariato scende dal ring e l’anno dopo l’apoteosi continua: incarna Johnny Kovak, il capo carismatico del sindacato dei lavoratori in F.I.S.T. Diretto da Norman Jewison, Stallone riscrive la sceneggiatura di Joe Esz- terhas, mentre prepara la rivincita con Rocky II (1979): Balboa vince e diventa campione del mondo. Non è primato di biglietti venduti, ma è comunque il secondo film più visto in tutto il pianeta, «con 200 milioni di incasso, preceduto soltanto dai lucciconi di Kramer contro Kramer », scrive Gabutti.

Da perdente destinato a rimanere un anonimo congelato nell’«iceberg di diamante», come Truman Capote definiva la società newyorkese, ormai le luci della ribalta celebrano l’attore e regista vincente. «E in quella sua vittoria, c’è il riscatto del proletariato e l’esaltazione del suo genere “action film” che esplode definitivamente in Rambo.

L’altra maschera stalloniana, il reduce del Vietnam disilluso e rifiutato dal suo Paese, con il quale entra in “guerra”, rimpiangendo e rivendicando quel sano spirito di cameratismo marines che aveva respirato (e che portava tatuato nell’anima) sul fronte nemico, a Saigon. Rambo esce nel 1982, e al di là del consenso popolare e «proletario» a livello internazionale, nel genere film sul Vietnam è assolutamente inferiore a Il cacciatoredi Michael Cimino, uscito quattro anni prima.

Mentre Stallone con Rocky può fregiarsi di aver rianimato il filone cinematografico sul pugilato, che era fermo al Rocky Graziano (Paul Newman) di Lassù qualcuno mi ama e che riprende forza con Toro scatenato (1980) di Martin Scorsese: film che consacra il regista e soprattutto Robert De Niro, premio Oscar per il migliore attore.

È curioso, come da “vecchi” Stallone e De Niro si ritrovino a boxare sullo stesso ring in Il grande match (2013) di Peter Segal. «Questa è un’altra prova del genio di Sly. Ha riaperto il segmento “cinemapugilato” che poi ha portato all’Oscar anche Clint Eastwood con Million dollar baby (2004) che, è in parte frutto di quel trash e di operazioni registiche di Stallone non sempre riuscite a pieno». Come Stayng Alive sequel de La febbre del sabato sera( 1983), ormai nella storia del cinema più per il brano omonimo della colonna sonora dei Bee Gees che per come Sly ha diretto John Travolta.

Uscite a vuoto, ma anche tiri sventati da portiere di Fuga per la vittoria altro film cult in cui Rocky scende su un campo di calcio e diventa il capitan Robert Hatch che indossa i guanti del portiere improvvisato (allenato per il film da Gordon Banks, il miglior n.1 inglese di tutti i tempi) della squadra degli alleati-prigionieri che sfidano la formazione dei carcerieri-nazisti.

Sfida vinta, in primis da Stallone che, da allora, alla faccia dei critici, è diventato una icona del cinema con alle spalle decine di film – recitati, girati e prodotti – e ben 11 capitoli complessivi delle due saghe di Rocky( 6) e Rambo (5). E il suo riscatto personale e artistico, secondo Gabutti, è dunque anche quello del proletariato, anche se stiamo parlando di un uomo che ha sempre viaggiato a cachet di 15-20 milioni di dollari a film e ha appena venduto una villa a Los Angeles del valore di 110 milioni.

Difficile forse conciliare il proletariato con queste cifre? «Può darsi – conclude Gabutti – . Ma forse Stallone è il nuovo Bucharin, il rivoluzionario russo che, negli anni ’20, al proletariato rurale disse: «Contadini arricchitevi!».

IL LIBRO

Diego Gabutti

Il grande Sly - Film avventure di Sylvester Stallone, eroe proletario

Milieu Edizioni. Pagine 173. Euro 15.90