Dialoghi. Staid-La Cecla: l'uomo, la natura e l'antropologia che verrà
È sempre molto difficile parlare di un amico, e ancor più intervistarlo. L’amicizia richiede un certo pudore, compreso la rinunzia a parlare di argomenti controversi, come la politica o un mestiere che si condivide. Andrea Staid è un grande amico, insieme abbiamo esplorato mondi, vicini e lontani, dalla Sardegna alla Mongolia e abbiamo condiviso avventure editoriali. Adesso dovrei intervistarlo sul suo ultimo libro, Essere Natura, pubblicato da poco da Utet (pagine 132, euro 15,00). Il problema è che ci dividono molte generazioni e che ci sono, innestate in questo fiume di anni, concezioni del mondo e dell’antropologia abbastanza diverse. Andrea Staid non ha bisogno di recensioni, i suoi libri sono accolti da un pubblico numeroso e affezionato. Quindi so quello che rischio a porgli delle domande impertinenti, ma se non lo fa un amico… Ad Andrea ho dedicato l’introduzione del libro Tradire i sentimenti. Rossori, lagrime, imbarazzi, uscito per Einaudi. Raccontavo il mio imbarazzo rispetto alla militanza intellettuale; non mi ha mai risposto, quindi approfitto di questa intervista per riaprire alcuni temi e scambiarsi alcune riflessioni.
Andrea Staid - -
Caro Andrea, come cercai di raccontare in una introduzione scritta pensando a te e in qualche modo ad alcuni tuoi coetanei a cui mi sento affine, ho una perplessità riguardo la natura politica del tuo modo di fare antropologia. Ammiro il tuo impegno, lo sento familiare e sai che non mi sono mai sottratto alle battaglie per delle cause che ritenevo importanti. Il punto di mia perplessità è dove si situa per te il confine tra la ricerca antropologica e l’uso delle risposte che l’antropologia è in grado di fornire per supportare le proprie idee politiche?
Dal mio punto di vista la ricerca antropologica e la pratica etnografica che ho sviluppato negli ultimi dieci anni non mirano a supportare le mie idee politiche ma a costruire una bussola per orientarmi meglio nel complesso mondo che viviamo e vivo quotidianamente. In questi anni mi è successo proprio il contrario di quello che affermi, l’antropologia ha cambiato le mie idee politiche, a de-costruito la mia identità, le mie certezze, mi ha messo davanti al dubbio creatore. L’Andrea che ha iniziato la ricerca non è più lo stesso Andrea con le stesse idee politiche, perché l’etnografia mi ha aperto all’alterità, al diverso da me.
La funzione della ricerca antropologica è proprio quella di darci evidenza del mondo e delle società “come sono” – e magari spesso queste ci mettono in difficoltà, deludono i nostri ideali, con la violenza, l’ingiustizia, la gerarchia, l’irrazionalità e l’incoerenza. L’antropologo si trova allora in una posizione estremamente scomoda, complessa da gestire a livello personale. Vorrei capire cosa ne pensi.
Condivido con te: la ricerca sul campo, la riflessione antropologica ti porta a capire la complessità del reale e a fare i conti che non tutto è come vorresti.
Una volta tu mi hai detto che viene prima la militanza e poi il tuo ruolo intellettuale. Anzi ti sei rifiutato di definirti tale. Per questo ho coniato l’espressione “anarchico agreste” per la vocazione che tu assumi di rispondere ai grandi problemi del mondo tornando alla vita semplice del lavoro in campagna. Una volta di più ammiro la scelta personale, ma ho dubbi sul tuo volere convincere tutti di questa missione (ho dubbi in genere su tutti i missionari e sul pericolo che corrono di farsi leader di trasformazioni altrui).
Non ricordo di aver affermato questo, piuttosto sono convinto che le teorie che non vanno verso una pratica possibile e collettiva siano poco interessanti. Io non mi sento un “militante”, ho delle idee e cerco di viverle con coerenza. L’etnografia come dicevo prima mi ha cambiato, mi ha portato a fare delle scelte che non sono dettate dalla mio attivismo politico, ma proprio dal confronto con donne e uomini diversi da me. Il mio andare via dalla città e cercare di vivere un rapporto, una intimità che vada oltre la specie umana era una necessità per il mio essere in un luogo e non solo uno starci. Come dico nel libro, come affermo ad ogni conferenza io non mi sento un esempio per nessuno, la mia è solo una scelta di vita possibile ma non la più giusta o quella da seguire, per questo non concepisco la questione del missionario e neanche quella dell’anarchico agreste, semmai come dice J. Scott sono uno che prova a fare il contadino con discreti risultati. O per dirla come Fukuoka cerco di essere radicato in risonanza con ciò che mi circonda, il che nel mio caso significa anche vivere con i raccolti della terra.
La domanda che segue quella precedente è ovvia: su cosa hai dubbi? Su cosa pensi che non siamo ancora capaci di dare risposte che servano non solo per tutti, ma soprattutto per noi?
Ho dubbi su tutto, l’antropologia più che dare delle risposte ha amplificato le domande. In certi casi è riuscita a farmi capire meglio come posizionarmi nel mondo, ma sempre mettendomi in prospettiva e senza certezze assolute. Forse sarebbe più facile dirti su cosa non ho dubbi: per esempio il sistema economico neo liberale è un fallimento, è ingiusto, il colonialismo ha portato alla distruzione ecosistemica, il patriarcato ha fondato una società iniqua, lo specismo è una pura illusione.
Franco La Cecla - -
L’altra domanda ha a che fare con la politica. Ogni tanto, ricordando i miei maestri anarchici carrarini e cesenati ho dei dubbi sulla lettura anticapitalista che viene fatta oggi della realtà. Mi sembra che ci sia ancora un volere insistere su un marxismo che ha avuto come effetto la riduzione materialistica del mondo e dell’umanità. Com’è possibile per un antropologo ignorare che il mondo non è solo leggibile in questa chiave, soprattutto se si pensa alle categorie dell’animismo, all’importanza dello sciamanesimo e in genere all’importanza che molte culture attribuiscono a quello che non vedono o che non è più (i defunti)?
Ecco l’antropologia per esempio ha decostruito le mie certezze materialiste e razionaliste. Non capisco perché connetti una critica al capitalismo con una impossibilità di comunicazione e relazione con animismo e scimanesimo, basti pensare al meraviglioso libro di A. Tsing, o ai lavori di Viveiros De Castro, o gli scritti di Raul Zibechi dove si connette proprio la forza dello sciamanesimo e dell’animismo a una possibile critica radicale del capitalismo. Ignorare la spiritualità dei popoli porta alla riproduzione del capitalismo attraverso l’individualismo e il consumismo. Come ci ricorda proprio Zibechi esiste una spiritualità in molti mondi nativi-indigeni, concepita come elemento che tiene unite le comunità e sostiene il loro legame con la terra e con il territorio, e come asse delle loro resistenze passate e attuali. Una spiritualità che non è né religione né ideologia. Coinvolge i corpi e non solo le menti, si ricrea nella vita quotidiana e sostiene la vita umana e non umana.
Nel libro e in una presentazione ti ho sentito accusare Aristotele e l’Umanesimo del disastro in cui viviamo. Non credi che sia un po’ facile e soprattutto che dietro queste due realtà ci sia una ricchezza che richiederebbe un po’ di prudenza? Per me l’umanesimo è Dante, Petrarca, Boccaccio e non credo che significhi porre l’uomo al centro di tutto, ma piuttosto porvi i suoi dubbi, la sua ricerca della verità.
Nel libro cerco di capire cosa ha costruito la “nostra” cosmologia antropocentrica e per capirlo parto dal dualismo natura/cultura, una visione che si è sviluppata principalmente in Europa a partire da Aristotele (possiamo negarlo?), una concezione che si è strutturata in modo strettamente antropocentrico in seno alla teologia cristiana (con al suo interno degli eretici certamente), che vede l’essere umano come colui che deve dominare ciò che lo circonda, avendo una sorta di diritto a governare la natura sentendosene parte esterna e superiore. Questa opposizione natura/cultura si espande nella metafisica dualistica cartesiana che di fatto pone le basi della scienza nella separazione netta tra sostanza materiale e sostanza spirituale. Parole, queste ultime di Andrea Staid, che aprono a nuovi temi e a ulteriori confronti. Chiudo sapendo che un libro non abbraccia tutto il pensiero di un autore e sapendo anche che è nel dibattito e nel confronto che l’antropologia e la società può andare avanti. Credo anche che siano le idee nuove che fanno avanzare il tutto e che di queste abbiamo estremamente bisogno in un momento in cui l’immaginazione sembra non essere più capace di portarci verso il futuro.