Agorà

Anniversario. Srebrenica, l'orrore non si nasconde

Riccardo Michelucci giovedì 16 aprile 2020

Una donna bosniaca piange sulla tomba di un suo caro a Srebrenica

Può la letteratura calarsi nelle profondità di un abisso incommensurabile fino a far comprendere uno dei più grandi orrori del XX secolo? Ormai venticinque anni fa la remota località bosniaca di Srebrenica fu teatro dell’ultimo genocidio compiuto in Europa. I soldati della repubblica serba di Bosnia uccisero più di ottomila uomini e ragazzi bosgnacchi musulmani, in gran parte civili. Fu un massacro apparentemente privo di obiettivi strategici e motivazioni logiche.

Sebbene molti dei carnefici fossero ufficiali nati, educati e formati nel dogma della fratellanza e dell’unità dei popoli slavi uccisero al di fuori di ogni regola di guerra, solo per ragioni di appartenenza a un’altra nazionalità e a una diversa fede. Eppure il conflitto in Bosnia era quasi finito e i nazionalisti serbi avevano già ottenuto i loro obiettivi, creando uno spazio etnicamente ripulito lungo il confine segnato dalla valle della Drina.

Certo, volevano vendicare i soldati uccisi tra il 1992 e il 1995 e anche molti massacri dei secoli passati. Ma l’odio ancestrale trasformato in orientamento politico–strategico non può bastare, da solo, a spiegare l’incomprensibile, a penetrare nel cuore di tenebra di un massacro premeditato che segnò il culmine dell’orrore balcanico.

A cercare di razionalizzare il genocidio, sobbarcandosi un compito tanto arduo quanto affascinante, è il giornalista Ivica Ðikic in Metodo Srebrenica (Bottega Errante edizioni, traduzione di Silvio Ferrari): non un’inchiesta, né un saggio, e neanche un’opera di finzione, bensì uno straordinario romanzo documentario basato su fatti storici, su persone e vicende reali.

Già autore di un romanzo sul dopoguerra bosniaco portato al cinema dal regista premio Oscar Danis Tanovic (Cirkus Columbia), Ðikic ha analizzato e incrociato una mole imponente di testimonianze, documenti, capi d’accusa e trascrizioni dei principali dibattimenti del tribunale dell’Aia, ha ricostruito ora per ora gli avvenimenti dall’11 al 16 luglio 1995 nell’area di Srebrenica, e ha infine costruito un poderoso affresco letterario con elementi romanzeschi inseriti nella struttura del testo.

L’ha fatto individuando innanzitutto un protagonista, un uomo che al contrario del famigerato generale Ratko Mladic, non fu una delle stelle mediatiche di quella guerra. Ljubiša Beara, alto ufficiale dell’Armata Popolare Jugoslava, ricevette dallo stesso Mladic l’ordine di dirigere e organizzare lo sterminio di alcune migliaia di prigionieri bosgnacchi in appena quattro o cinque giorni e poi di far sparire i loro corpi nel più breve tempo possibile.

Il 14 luglio 1995, giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, Beara iniziò a coordinare il più grande assassinio di massa con motivazione etnica compiuto in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Nel farlo non ebbe alcuno scrupolo di natura morale: per lui si trattò soltanto di un problema tecnico da risolvere con la maggior efficienza e rapidità possibile. «Fu troppo attivo, solerte e maleficamente creativo in quei cinque giorni – scrive Ðikic – per poterlo inserire nel cliché dell’esecutore neutrale di progetti e ordini altrui». Il suo ruolo chiave nel genocidio è dimostrato dalle intercettazioni telefoniche. In un colloquio del 15 luglio 1995 con il generale Radislav Krstic, comandante del Corpo della Drina, Beara chiese con urgenza altri soldati per uccidere i prigionieri rimasti. Esseri umani inermi e innocenti che durante la conversazione sono chiamati «pacchetti».

Lei ha seguito le guerre balcaniche come giornalista. A lungo Srebrenica le è apparso un mondo lontano, di cui non sapeva quasi niente e che non le interessava. Poi all’improvviso ha sentito il bisogno di approfondire e trovare risposte all’orrore. Cosa le ha fatto cambiare idea?
Sono stato alcuni giorni a Srebrenica nel luglio 2005 in occasione del decimo anniversario del genocidio, in missione come giornalista. In quei giorni furono sepolti i resti di più di settecento vittime, recuperate nelle fosse comuni. Solo allora mi scontrai per la prima volta con le dimensioni dell’orrore. Sentii che avevo qualche cosa da dire su Srebrenica. Nei dieci anni successivi ho svolto indagini cercando il modo per trasmettere ciò che sapevo attraverso il filtro letterario. Il meglio che sono riuscito a fare è stato un romanzo documentario, forma insolita e rara, specie di fronte a un male di dimensioni surreali.

Quando ha capito che un’inchiesta, un saggio o un’opera di finzione non rappresentavano il corretto approccio?
L’ho compreso dopo alcuni tentativi falliti. La ricerca mi aveva svuotato emotivamente e intellettualmente al punto che mi sono mancate l’energia e la fantasia per fare un passo verso la finzione, un passo che ovviamente non fosse povero e poco credibile nei confronti della realtà. La mia fantasia si era arresa di fronte alla superiore forza di ciò che era realmente accaduto.

Il suo lavoro di ricerca per realizzare questo libro è monumentale. Ciononostante afferma di non essere riuscito a trovare una risposta sulle motivazioni di quanto è accaduto.
Sì. Ho fallito. Non sono riuscito a spiegare perché l’esercito serbo ha fucilato ottomila prigionieri nel giro di quattro o cinque giorni. Non sono riuscito a decifrare quale sia stata la ragione per cui il colonnello Beara in quattro o cinque giorni abbia diretto a sangue freddo un crimine di tali proporzioni. Mi consola però il fatto che il compito della letteratura non sia quello di fornire risposte esatte ma solo quello di provare a cercare queste risposte con i mezzi che ha a disposizione.

Crede che a un quarto di secolo da quei fatti i Paesi dell’ex Jugoslavia abbiano una consapevolezza diversa nei confronti del genocidio di Srebrenica?
In Croazia è un tema che interessa a pochi. I croati la considerano una storia che non li riguarda, esiste però una certa consapevolezza di quanto accaduto, di chi siano i colpevoli e le vittime. I serbi in Bosnia ed Erzegovina, come pure la Repubblica di Serbia, continuano invece a tenere la mano davanti agli occhi e a credere che se loro non vogliono vedere, allora nessun altro vedrà. Ma i serbi devono confrontarsi con la verità sul genocidio, non tanto per i bosgnacchi o per il resto del mondo, ma per il proprio futuro e per la propria salute collettiva.

Perché creare una memoria condivisa su quei fatti appare un’impresa quasi impossibile?
Purtroppo gran parte dell’élite politica e intellettuale serba in Serbia e in Bosnia continua a essere imbevuta di nazionalismo e di odio, e ciò impedisce un confronto. Per i nazionalisti i cattivi sono sempre gli altri. Il nazionalismo e la cecità di fronte ai propri errori rappresentano ancora i mezzi più sicuri per prendere il potere in Serbia. E purtroppo non si vede all’orizzonte una forza politica capace di interrompere la spirale di distruzione e menzogna.

(ha collaborato Elisa Copetti)