Campioni. Piccoli grandi eroi, le rinascite dello sport
C’è un tempo per gioire e salire su un podio e c’è un tempo per stringere i denti e aggrapparsi a una speranza più grande. È la vita, ci sono partite e partite. Quelle più difficili da vincere ti piombano addosso quando meno te lo aspetti e ti proiettano in un tunnel apparentemente senza uscita. Eppure è proprio quando lo sport deve fare i conti con la sofferenza o il lutto improvviso che le risposte sono sorprendenti e lasciano un segno indelebile in tutti gli appassionati. Messaggi, testimonianze, preghiere, tante preghiere: un’ondata di vicinanza e affetto sta accompagnando il ritorno alla vita di Claudia Cretti, la sfortunata ciclista bergamasca caduta lo scorso 6 luglio durante una tappa del Giro Rosa. La ventunenne di Costa Volpino si è ritrovata in coma all’ospedale di Benevento dove ha subito una delicata operazione al cervello. Ore e giorni di attesa e angoscia ma grazie alla sua tenacia e al sostegno in primis della sua famiglia oggi è tornata a casa per la riabilitazione. «Ci vorranno mesi, forse anni - ha confidato il suo papà alla Gazzetta nei giorni scorsi - Ma i progressi sono stati tanti, ora cammina e parla». La famiglia è rimasta sbalordita dalla solidarietà ricevuta: «Sono venute a trovarla tante compagne della Nazionale e della squadra (la Valcar). Ci chiamano tante persone che non sono appassionate di ciclismo, ma sono rimaste colpite dalla sua storia. Si sono formati gruppi di preghiera per Claudia, abbiamo ricevuto immagini delle sue foto portate in tanti santuari». La dimensione spirituale si sta rivelando decisiva e i familiari hanno fatta propria la frase di Madre Teresa: «Dammi la forza di cambiare ciò che posso e di accettare ciò che non posso cambiare». L’ha svelato la sua mamma, Laura, che ha spiegato quanto sia stata dura accettare all’inizio questo dramma. Oggi vedendo la figlia sorridere è invece sicura: «Dietro tutto quello che è successo a Claudia c’è un progetto d’amore misterioso, doloroso e incomprensibile, ma è amore».
La forza di guardare in alto è trasversale e abbraccia ogni sport. La Formula 1 che da ormai quasi quattro anni è in ansia e prega per Michael Schumacher ha da poco salutato il ritorno in pista di Robert Kubica, il quasi 33 enne polacco di Cracovia, scampato a una serie di incidenti paurosi l’ultimo dei quali nel 2011 gli ha procurato un’emorragia interna e gravissime lesioni alla gamba e al braccio destro. Non ha avuto esitazioni nel riconoscere di essere stato miracolato dal suo compaesano Giovanni Paolo II di cui è da sempre devoto al punto di incidere una dedica sul suo casco. È stato costretto a diventare mancino, ma oggi si sente interiormente rinfrancato: «Ho trascorso molto tempo in ospedale, ho visto tanta gente patire e soffrire. Mi sono detto: i problemi veri sono altri. Proprio io che un tempo, andavo in bestia per un raffreddore… Dalla vita, da ogni sofferenza si impara sempre. E ogni insegnamento è un bene prezioso». Il mondo delle due ruote ha perso due grandissimi, come Nicky Hayden e il nostro Marco Simoncelli. Ma continuerà a battere lo stesso il loro cuore. Letteralmente per l’americano, la cui famiglia cattolica ha deciso di donare gli organi assecondando un desiderio del campione di superbike, spirato a 35 anni nel maggio scorso all’ospedale di Cesena: fatale un incidente con un’auto mentre era in sella alla sua bici. Rivive anche la generosità di Simoncelli, scomparso in Malesia nel 2011, grazie alle opere della sua Fondazione che sta per ultimare a Coriano (Rimini), paese natale del “Sic”, una casa di accoglienza per bimbi disabili. Un progetto reso possibile dalle donazioni di tutti i fans, lanciato proprio dal papà di Marco: «Quando lo portavo a scuola da bambino tutti i giorni passavo qui vicino e vedevo i pulmini che andavano a prendere i ragazzi disabili».
E che dire della mobilitazione del calcio per non far scomparire la Chapecoense, il club brasiliano decimato da un disastro aereo il 28 novembre 2016. Uno dei tre giocatori sopravvissuti, Alan Luciano Ruschel, il capitano era in campo anche a Roma nell’amichevole del 1 settembre scorso. Lui che dopo l’incidente prima di entrare nella sala operatoria aveva spiazzato l’équipe dell’ospedale con una richiesta toccante, quella di custodire con cura la sua fede nuziale. E ribadisce: «Nel momento in cui l’aereo si è schiantato, Dio mi ha preso in braccio e mi ha detto che io ho una missione qui sulla Terra. Ecco perché non mi ha portato via. L’unica spiegazione è che sia avvenuto un miracolo: sono vivo e posso camminare». Una tenacia nel ricominciare senza nessun pietismo: «Non voglio pietà, non voglio giocare per grazia ricevuta, solo perché sono uno dei sopravvissuti. Voglio giocare come sapevo e tornare a quei livelli».
Da brividi anche la fede dei genitori del piccolo Bradley Lowery, tifosissimo del Sunderland, spentosi a soli sei anni nel luglio scorso dopo aver lottato con un male incurabile. La sua storia aveva fatto commuovere l’Inghilterra prima di fare il giro del mondo, spingendo squadre e calciatori a una raccolta fondi per la sua guarigione. Il giorno del funerale, nella chiesa cattolica di St Joseph ad Hartlepool, dove il bambino era stato battezzato, sua madre Gemma l’ha salutato con una poesia e una promessa: «Un sorriso così grande e bello che poteva illuminare qualsiasi stanza. Ci hai lasciato troppo presto ma gli angeli avranno avuto bisogno di te in Paradiso dal momento che Dio ti ha scelto». E una promessa: «Ci incontreremo ancora, il nostro supereroe è in cielo». Che nemmeno la morte abbia l’ultima parola e che il piccolo Bradley continui a vivere nel cuore di chi l’ha amato lo dimostra Jermain Defoe, attaccante ai tempi del Sunderland, idolo del bimbo. Il centravanti era andato più volte a fargli visita ed era diventato una sorta di fratello maggiore. Aveva portato il piccolo con sé anche prima della partita della Nazionale ed era diventato mascotte di tutta la Premier League. A riprova di quanto la sofferenza illumini e faccia rinascere tutti coloro che stanno attorno, Defoe ha salutato così il suo piccolo eroe: «Mi sento onorato del fatto che Dio ti abbia introdotto nella mia vita. Il tuo coraggio e la tua audacia continueranno ad essere per me una fonte di ispirazione. Mi hai reso una persona migliore».