Precursori. L'amore al tempo dei Soviet
In questa e nelle altre immagini alcuni fotogrammi dell’“Amore a tre”.
Il 15 marzo del 1927 esce nelle sale di Mosca, e poi in quelle di Berlino, Praga, Parigi, Londra e New York, Tret’ja Mešcanskaja (letteralmente “Strada Mešcanskaja”; in in italiano L’amore a tre, 86’) di Abram Room, su soggetto del teorico della letteratura e scrittore Viktor Šklovskij. Questi, dopo aver lasciato la nascente Urss per contrasti politici, e vissuto a Berlino, viene “recuperato” dal regime e rientra a Mosca, intorno al 1925, ottenendo la direzione dell’Ufficio soggetti (la censura) della Sovkino (il Cinema di Stato). Šklovskij, che ben conosce gli intellettuali sovietici, e le loro storie private, pare si ispiri al ménage à trois tra il noto poeta Vladimir Majakovskij, Lili Brik e Osip Brik (teorico della letteratura e collega di Šklovskij; due dei fondatori del gruppo dei “formalisti russi”), marito di Lili e amico del poeta.
Il film trasporta, però, la storia in un sano ambiente operaio, per far sì che il pubblico in sala non la leggesse come un vizio intellettual-marxista ma come “fatto” (imperversava la “letteratura dei fatti”) possibile in ogni sincero cuore proletario. Volodia (Vladimir Fogel’), tipografo, giunge in treno dalla provincia a Mosca per lavorare in un quotidiano (ovviamente è “Il giornale dei lavoratori”). Gira per la città ma non trova un alloggio. S’imbatte in un vecchio amico, Kolia (Nikolaj Batalov), operaio; questi, felice di rivederlo, lo invita a casa sua: c’è un divano disponibile. Lo presenta, entusiasta, a sua moglie Ljuda (è la bella Ljudmila Semënova: occhi azzurri volto innamorabile), con una frase allusivamente prolettica: «In guerra abbiamo dormito sotto la stessa coperta, abbiamo combattuto nell’Armata Rossa!».
Dopo qualche giorno Kolia avverte moglie e amico che, con la sua squadra di operai, lascerà Mosca per alcuni giorni. Volodia vorrebbe trasferirsi per non dare adito a chiacchiere, ma Kolia insiste: deve rimanere, farà compagnia a Ljuda. Nessun problema: sua moglie è così innamorata di lui che mai lo tradirebbe con chicchessia. Sennonché, le certezze di Kolia si infrangono contro il repentino amore che scoppia, violento, tra Volodia e Ljuda, durante un galeotto domenicale volo turistico (ovviamente le chiese ortodosse erano state chiuse) nel cielo di Mosca, offertole da Volodia.
Quando Kolia torna, deve prendere atto della nuova situazione: lascerà l’appartamento il giorno dopo. La mattina seguente piove. Volodia è in tipografia. Kolia, malinconicamente, con la sua valigia di cartone, varca la porta. Ljuda, presa da un forte senso si colpa, gli corre dietro e lo riconduce in casa, entrambi sono zuppi d’acqua: si guardano con rispetto. Ella sussurra: «Dopotutto, il divano è libero». Didascalia: «Di nuovo in tre sotto lo stesso tetto». Kolia e Volodia sono sempre più amici. Ljuda passa le serate isolata, a guardare il buio (ossia il niente) oltre la finestra, mentre i due giocano a dama, ridendo come folli.
Dopo qualche altra settimana Ljuda comunica loro, preoccupata, di essere incinta. Ma non sa indicare il padre. I due corrono a controllare sui rispettivi calendari, per vedere quando hanno giaciuto con la donna. Ljuda si sente umiliata. Poi, Kolia le ordina duramente di abortire. Volodia tace. Ljuda, delusa dai due uomini, si reca tristemente in una clinica privata. Nella clinica è colpita dalla freddezza e dall’indifferenza con cui le donne sono accolte dall’infermiera e dal medico dai ritmi fordiani (entra ed esce dalle due salette con le maniche del camice arrotolate sul gomito a mo’ di macellaio). Sui volti delle pazienti in attesa corre la terribile sofferenza psicologica prima di entrare nella sala chirurgica.
Ljuda sta per svenire. Apre la finestra per prendere un po’ d’aria e, casualmente, vede dei bambini in strada; sorride (primo piano), torna serena. Lascia la clinica. Poco dopo, Kolia e Volodia si presentano in clinica per sapere dell’aborto; l’infermiera risponde loro che la donna è andata via poiché ha «avuto paura». Ljuda è nell’appartamento; fa la valigia, toglie la sua bella foto dalla cornice, e lascia sul tavolo la fede nuziale con un biglietto: «Non tornerò più». Si dirige verso la stazione. Kolia e Volodia raggiungono affannati l’appartamento che ora si presenta vuoto e desolato. Sono senza parole e tristi. Leggono il messaggio. Dopo un po’ Kolia è sul letto, Volodia sul sofà. Uno chiede all’altro «Bisognerebbe fare del tè». Nessuno dei due si muove. Nel taglio successivo Ljuda è affacciata al finestrino di uno scompartimento, serena, con il vento che le agita la sciarpa: il treno corre verso il futuro, verso la vita.
L’intento di Šklovskij e Room era quello di mostrare l’immaturità dei due uomini (quando si presentano all’infermiera per sapere di Ljuda, alla domanda chi siano, ognuno risponde «Il marito»), oltre all’impossibilità oggettiva di istituire una pseudo “famiglia aperta”. Tret’ja Mešcanskaja, cui potrebbe spettare l’onore del primo racconto “femminista” della Settima arte, è notevole, soprattutto, per la difesa della vita a fronte di un regime che, tra il 1920 e il 1930, ricorreva all’aborto al fine di contenere il sovraffollamento della popolazione metropolitana dovuta all’emigrazione dalle campagne. A rafforzare l’idea che L’amore a tre sia un piccolo capolavoro interviene anche la regia. I superbi dettagli delle ruote del treno in corsa e dei binari (l’arrivo di Volodia in città) anticipano di pochi mesi quelli di Berlino. Sinfonia di una grande città (1927) di Walter Ruttmann; mentre le inquadrature del risveglio di Mosca all’alba, rese con campi medi e panoramiche dall’alto hanno di certo influenzato L’uomo con la macchina da presa (1929) di Dziga Vertov.