La mostra. Pierre Soulages, la ricerca della luce nel nero
L'artista francese Pierre Soulages, che compirà 99 anni il prossimo 24 dicembre
Pierre Soulages, che compirà novantanove anni il prossimo 24 dicembre, è l’esempio di una coerenza di idee e di metodo abbastanza rara nell’arte contemporanea. Soulages ha cambiato lungo gli anni e i decenni, ma l’intuizione fondamentale ha sempre guidato la sua idea di pittura che nasce da una esperienza precoce: la materia vive di luce. La sua bellezza dipende esclusivamente dalla capacità con cui l’artista sa modellarla affinché esprima- afferri la luce e ne trasmetta lo spettro cromatico interno. Soulages è uno scultore più che un pittore; lo dice, anzitutto, il colore nero che egli ha modellato sulla carta e sulla tela per settant’anni, cambiando l’architettura dei segni, che diventano gabbie per spazi dove la luce abita rivelando l’armonia metafisica di quelle costruzioni pittoriche. E in secondo luogo è un architetto. Questo viene dall’imprinting che ebbe nella chiesa romanica di Conques quando era ancora un ragazzino.
Con la collaborazione del Centre Pompidou e di alcune collezioni private la Fondation Gianadda di Martigny ha allestito da poche settimane quella che viene definita “una retrospettiva” (a cura di Bernard Blistène, fino al 25 novembre). Questo genere di mostra, di solito, si tiene quando una artista è già morto e il suo itinerario creativo si è chiuso. Se un artista è ancora vivo e operante, si parla più precisamente di “antologica” e in effetti è questa la sostanza della mostra in corso a Martigny, dove figura anche un quadro che l’artista ha datato 19 giugno 2017: una tela coperta da una imprimitura nera sulla quale, lungo il lato sinistro scende una verticale di tratteggi di colore nero, deposti a spatolate di materia densa e spessa che emergono dalla superficie come una colonna di bande scabre dalla lunghezza irregolare. In quest’ultimo decennio la costruzione di verticali come stratificazioni di materia ricorre frequente. Sono elementi architettonici che la luce rende cangianti.
Qualcuno ha scritto che Soulages ha saputo far coesistere l’arte romanica e l’arte astratta. Si riferiva alle vetrate che Soulages ha realizzato tra anni Ottanta e Novanta del secolo scorso per l’abbazia di Sainte-Foy di Conques. Non so quanti credenti oggi siano favorevoli a queste vetrate prive di iconografia e in cui ricorrono soltanto linee dalle forme che esprimono ten- sioni e forze nelle quali corre indubbiamente una energia spirituale che possiamo definire sacra in senso lato. In un volume di Françoise Jaunin uscito qualche anno fa col titolo Soulages. Outrenoir, l’artista risponde alle domande dell’autrice e in un capitolo descrive come sono nate queste vetrate dove «la luce è la materia prima». Il racconto di questa impresa che è durata sette anni e ha visto Soulages realizzare centoquattro vetrate unite dallo stesso linguaggio, fa capire con quale serietà l’artista abbia affrontato l’impresa. «Nel 1986 il Ministero della cultura, insistendo molto, mi propose di creare delle vetrate per Abbeville. È troppo grande, dissi. “Volete qualcosa di più piccolo: allora Notre-Dame di Tronoën”. Amo molto la Bretagna ma... “Giusto, voi siete del Sud. Bene, allora Flaran”. Perché mettere delle vetrate in questa chiesa cistercense? “Ma noi vogliamo far intervenire l’arte contemporanea nei monumenti storici”. Senza scoraggiarsi il Ministero torno alla carica: “e Conques?”». In quel momento, per Soulages fu come una parola d’ordine e, confessa, «mi sono sentito vacillare». La chiesa, infatti, è quella che ha deciso la vocazione d’artista di Soulages quando aveva soltanto dodici anni. Il professore aveva portato i suoi alunni in questa chiesa benedettina sottolineando la “goffaggine” degli scultori romanici. Ma il giovanissimo Soulages era talmente emozionato da ciò che vedeva che le parole del suo professore gli sembrarono stonate: «È nello spazio interno della chiesa abbaziale che ho avuto la rivelazione improvvisa della bellezza dell’arte romanica e del mio desiderio di diventare pittore».
L’arte romanica è soprattutto architettura e scultura, le due dimensioni che tornano continuamente nella pittura di Soulages e senza soluzione di continuità lungo i decenni. «Pensavo di dover fare una trentina di vetrate, ma in realtà erano centoquattro: grandi, piccole, alte, basse, rotonde e distribuite in questo edificio che ha una lunghezza di cinquantasei metri. Mi sono messo al lavoro, cercando di tener fuori le emozioni che avevo provato ». Perché, gli chiede l’intervistatrice. «Perché volevo essere obiettivo. Dovevo affrontare Conques con uno sguardo nuovo». Studia lungamente la chiesa, nota anomalie nella simmetria dell’edificio, in apparente contraddizione con l’illuminazione che da nord è più debole che da sud. «Ho chiesto a due amici storici, Georges Duby e Jacques Le Goff: entrambi mi dissero la stessa cosa: è così, probabilmente per ragioni simboliche». Quando deve scegliere il vetro all’inizio in realtà pensa all’alabastro, ma poi scarta l’idea: ha una colorazione giallastra e Soulages non vuole modificare i colori di Conques: «Volevo lasciar vivere la variazione sottile della pietra che passa dall’ocra al rosa e al blu ardesia». Così viaggia per mezza Europa e va fino in America per trovare chi gli può fornire la materia giusta. Niente. «Allora devo inventarlo»: così si rivolge a un centro di ricerca di Marsiglia, il Cirva (del quale, per inciso, è in corso a Venezia una mostra alla Fondazione Cini ancora per qualche giorno). Passa giorni e giorni coi tecnici per trovare la soluzione nella quale «coesistano i due stati del vetro: quello trasparente e quello cristallizzato che è opaco». Arrivato all’impasto giusto, bisognava trovare un laboratorio che lo producesse. Dopo vari tentativi scopre l’officina che riesce a cuocerlo, è in Westfalia. Nel mezzo centinaia di tentativi a Marsiglia e in altri laboratori per arrivare all’impasto e alla tecnica voluta.
Nel frattempo sono trascorsi due anni e Soulages non ha ancora realizzato neppure un disegno per le vetrate. «Non sono partito da uno schizzo che ho fatto trasportare sul vetro, ho fatto il cammino inverso: sono partito dalla materia stessa, ovvero dalla luce. Materia luminosa». L’esito è sorprendente. Dopo le prove iniziali montando qualche vetro su un’apertura per valutarne l’effetto luminoso «ho constatato che non solo questo vetro produceva, come avevo previsto, una modulazione dei valori in funzione dell’intensità della luce che lo attraversava, ma anche – cosa stupefacente – una modulazione dei colori. E dove il vetro era più trasparente assumeva il colore azzurrino della luce, mentre dove era più opaco cambiava verso l’arancio. Anche all’esterno accadeva qualcosa di analogo. Incredibile. Non avevo mai visto o immaginato qualcosa del genere: il miracolo delle vetrate a due facce». A quel punto Soulages comincia a «scarabocchiare » su un taccuino e poi a lavorare con nastro adesivo sui cartoni in scala reale, tracciando delle linee della stessa larghezza del piombo che fa da struttura e segno alle vetrate: «Era come se disegnassi direttamente col piombo». Queste linee-struttura esprimono andamenti che invitano a cogliere l’elemento simbolico astratto. Come spiega Soulages, le sue vetrate cercano la metafisica della luce. Sono linguaggio del sacro, che ci chiede di saperlo non solo vedere, ma anche sentire. E che ciò avvenga – come nella sua pittura – con l’uso prevalente del nero, dice quanto di mistico si celi in questa idea. Contemplazione, silenzio, concentrazione, interiorità: sono le parole chiave di questa poetica, e dunque possono valere per tutta la pittura di Soulages. Per verificarlo basta recarsi a Martigny.