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IL FESTIVAL DEL CINEMA. Sorrentino e Penn stregano Cannes

Alessandra De Luca sabato 21 maggio 2011
Il romanzo di formazione di un cinquantenne rimasto bambino e la caccia ai nazisti, l’energia rigenerante del rock e il dramma dell’olocausto. Per la quarta volta al Festival di Cannes, Paolo Sorrentino finisce subito tra i favoriti per la Palma d’Oro con il suo road movie This Must Be the Place. Merito di Sean Penn che dà vita a uno delle creature più sorprendenti arrivati sullo schermo negli ultimi anni. Merito di una sceneggiatura che ci regala dialoghi brillanti, battute da ricordare, momenti struggenti ed esilaranti. Merito del resto del cast (tra cui Frances McDormand, Eve Hewson – figlia di Bono – e David Byrne, ex leader dei Talking Heads) che regalano grazia a verità ai loro personaggi. Merito di Sorrentino che coglie con immagini mai banali l’inusuale, il dissonante, il non visibile.  «Il mio film – spiega Sorretino – è la risposta alle parole deliranti (pro Hitler - ndr) di Lars Von Trier».Già, il film. Cespuglio di capelli color pece, occhi bistrati di nero, viso incipriato e labbra rosse come Robert Smith dei Cure, Penn è una stella del pop tramontata ormai da vent’anni a causa di un trauma. Vive galleggiando a Dublino in un casa degna del suo ex status, con una moglie che lo ama da trentacinque anni. Incerto sulle gambe, voce in falsetto, depresso, o forse solo annoiato, Cheyenne vive trascinando sempre qualcosa con sé, prima il carrello della spesa, poi il trolley. All’improvvisa morte del padre che non vede da tre decenni, questo gotico Peter Pan torna a New York dove scopre da un ebreo cacciatore di nazisti che il persecutore di suo padre è ancora vivo. Cheyenne decide così di mettersi sulle sue tracce, spinto più dal bisogno di crescere e riconciliarsi con la memoria del padre che dalla voglia di vendicarsi.Inizia così un viaggio nell’America più iconografica, quella dei deserti e dei vasti orizzonti, dei diners e delle stazioni di servizio. «Più che a Paris Texas di Wenders – dice il regista – pensavo a Una storia vera di Lynch, un film che ha lasciato un segno forte dentro di me. Rispetto ai miei personaggi precedenti, che hanno frequentato il male nelle sue tante declinazioni questo è un portatore di gioia e di bontà. Possiede la rara capacità di ascoltare e opta per uno stile di vita in disuso, che è quello della lentezza. Il rapporto tra padri e figli è un tema molto forte, soprattutto per gli uomini. Ha sempre qualcosa di malinconico e doloroso. Ho avuto vita facile con Penn perché ho lavorato molto con Servillo: i due hanno in comune il coraggio di affrontare personaggi molto rischiosi». «Ho conosciuto Sorrentino durante la serata finale del Festival nel 2008 – dice Penn – e gli ho detto che in qualunque momento avesse voluto lavorare con me, io ero pronto. È un piacere fuori dal comune recitare per un regista così e affrontare un personaggio come Cheyenne. Il rock è sempre stato considerato una malattia della società perbene, ma sarà proprio la musica a rompere la depressione del protagonista».«Mi stava molto a cuore l’idea dell’umiliazione – dice poi Sorrentino commentando il finale – il desiderio di vendetta è come quello di felicità: quando si compie non è appagante perché subentra il senso di colpa. Ma il castigo inflitto aiuterà Cheyenne a diventare un uomo».Ben fatto, ma fuori luogo nella competizione di Cannes l’action movie d’autore Drive di Nicolas Winding Refn che, senza risparmiare scene violentissime e sanguinose, racconta di uno stunt del cinema che per proteggere la sua vicina di casa e il bambino di lei dalle minacce di una banda di gangster sprofonda in un vero e proprio inferno.